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Cesare Pavese, stanza 346

“L’uomo mortale, non ha che questo d’immortale, il ricordo che porta e il ricordo che lascia” (Cesare Pavese). Non avevo letto molto di Pavese, quantunque la nostra prof. (Delle medie!!) ce ne parlasse in continuazione, con “Lavorare stanca”, ” I dialoghi con Leuco’”, “Tre donne sole”, “La luna ed i falo’ “, “La bella estate”, ecc.ecc l; fu in seguito, avanti nel tempo che mi introdusse alle sue letture, L. Non so, ci vedeva qualcosa che io non riuscivo, in maniera superficiale, quando le cose, le passioni,  avvengono e maturano prematuramente. Forse perché  anche lei, L,  riusciva a vedere le cose “con un occhio solo”, anticipatamente, con una intelligenza emotiva superiore. Era affascinata di Torino degli anni andati, (con i  suoi tram verdi) e di quelli recenti (con le sue contraddizioni), e di Pavese cosi una volta, passando davanti all’hotel Roma di Torino, durante una passeggiata tra via Roma e Porta Nuova, chiedemmo, in maniera improvvisa,  in portineria, di poter visitare la stanza 346 dove il tempo è  fermo dal 1950. Ogni tanto mi capita ancora di  passarci, davanti l’hotel Roma, lungo il tragitto casa scuola e viceversa,  e mi capita di ricordare quel giorno e  di riportare alla mente alcuni passi delle opere di Pavese. Durante le vacanze di Natale mi è  capitato di passare nell’atrio della stazione di Torino Porta Nuova, e tra i tanti biglietti sopra l’albero uno riportava una brevissimo scritto, dei Dialoghi con Leuco’, “l’uomo mortale non ha che  questo  di immortale, il ricordo che porta ed il ricordo che lascia”, ed era firmato L. a due passi dall’hotel Roma. Stanza 346, dove il tempo si è  fermato.

La bella estate

Primi giorni trascorsi a Torino,  dopo il rientro,  “abbracciato” da un caldo “di ritorno”,  soffocante,  asfissiante. Soliti giri,  a scuola,  da Feltrinelli,  qualche telefonata,  un gelato ogni tanto,  e oggi,  un breve passaggio nei pressi dell’Hotel Roma,  a Torino, ricordare lui e la “sua”- nostra, “bella estate”: Cesare Pavese.  Tanti bei libri,  uniti a bei ricordi di una bella estate.

Son tornato da quelle parti,  nel pomeriggio. L’insegna rossa “Hotel Roma”,  sotto i portici. Guardo all’interno dell’albergo ma non entro. Mi bastano i ricordi,  che è  un pochino come entrare: la poltrona,  il letto,  il telefono nero,  le emozioni.  La facciata della stazione Porta Nuova,  graziosa,  rossa,  come una bella donna, timida,  che riesce ancora ad arrossire ad un complimento ricevuto. Sul suo viso,  un neo,  che e’ l’orologio. Batte il tempo,  batte il cuore. Sotto l’edificio,  dal suo atrio sono piu le persone che escono di quelle che entrano. Bagagli alla mano,  single,  coppie,  famiglie,  tutti,  anche loro,  rossi,  abbronzati,  vendemmiati dal sole,  del sud. Escono,  si voltano, cercano bus,  tram,  la M,  disorientati,  felici a metà: la bella estate volge al termine.  Domani le telecamere,  alle 6 del mattino chiederanno agli operai che “resistono” cosa si aspettano di trovare. Alle 14 le stesse telecamere chiederanno agli operai,  alla fine del turno,  come è  andata. Le foglie gialle anticipano l’autunno anche se è  ancora estate. E molto calda.

22 ottobre 2016

Fa freddo. Il convegno su adozioni,  affido,  bes,  dsa  ecc. volge al termine. Una lunga giornata trascorsa seduto su una delle tante poltrone di questa aula magna (di un grande Istituto di Scuola  Superiore),  cartellina in una mano,  come tutti,  e biro stretra in pugno,  teso ad ascoltare  specialisti e non,  che restituiscono esperienze personali,  socializzate dal palco, su adozioni,  affido e crescita famigliare-scolastica-sociale negli anni nei vari ambienti scolastici con altri esperti a “snocciolare” dati e  disposizioni normative e linee guida. Sotto la Mole e  a  due passi da questa,   appena fuori da qui, una  “fabbrica scuola” a volerla guardare nella sua non indifferente “mole”; un po’ di ore che scorrono via,  veloci,  inframnezzate da una piccola pausa,  cercando sprazzi di luce,  per far pace con le emozioni; nel pomeriggio, nella sala attigua il barista pulisce la macchine del caffè  facendo fuoriuscire grandi getti di vapore:”sffffff”   intento alla pulizia del macchinario che sbuffa e cosi lui,   mentre ripone nello scaffale le ultime tazzine di una giornata lunga,  come i molti caffè  “lunghi” che da dietro il banco ha servito per ore. Chissa’ quante storie avra’ sentito raccontare e se a qualcuna in particolare ci avra’ prestato l’orecchio. Perche’ si sa,  “per certe cose,  ci vuole orecchio,  anzi parecchio” (Jannacci). Entro, qualche attrezzo di pulizia ‘stazione’ nel limbo,  segnalanudo all’attenzione,  quella esterna nel movimento e quella cognitiva (“ehi,  guardate che qui si chiude).  Ci sarebbe posto per un ultimo caffe? “Si”.  Così mi  accingo alla cassa,  ne ordino uno;  lo scambio è  immediato: euro contro scontrino e la risultante  di questa “transazione” e’ il mio caffè.  Giro il capo verso sinistra e oltre le scope un corridoio a croce. Una giornalista su di una panchina del corridoio appena fuori dall’aula magna sembra stia “confessando” una delle “attrici” del convegno. Sorseggio e termino ripensando alle cose da fare.  Recupero l’uscita velocemente. Respiro,  cambio un po’ d’aria. Dall’altra parte del corso,  sul viale,  il tram doppio,  arancione ha appena richiuso le porte centrli”bam”nonostante le guarnizioni in gomma,  “sfiuuuu” e la ripresa lenta grazue al pantografo lo muove verso Porta Palazzo. Le signorine appena scese sono carine e incappottate e si dirigono a puedi verso il centro con l’aria di chi la sa “universitaria”. Hanno chiome a coda di cavallo, occhiali da studentesse e ridono e muovono il capo come se stessero ripetendo frasi di alcune canzoni. E mentre parlano o cantano sorridono smuovendo la coda. Le chiome degli alberi invece sono di altra bellezza nell’esporre  le loro prime modifiche “cromatiche”. L’autunno ormai ha lasciato le porte ed è  entrato a tutti gli effetti dentro di noi. C’era una volta,  qualche mese fa e anno fa  (nel senso di scritta da Cesare Pavese) “La bella estate” ormai terminata. Domani è  domenica 23 ottobre. Una giornata ricca di storia: non perdiamola. A Porta Palazzo d’ “ora” della festa,  di “sguardi diversi” poetici e belli.

Nel frattempo recupero Feltrinelli per gli ultimi scampoli di questo “Sabato pomeriggio”,  a cavallo tra la poesia,  la musica e il religioso.

Per chi suona la campanella

11-9-2016-torino-foto-borrelli-romanoI quotidiani nelle edicole di oggi e la tv ci informano e ricordano l’ 11 settembre: del 2001 e del 1973. Le torri gemelle e Allende,  il Cile.  Il terrorismo in diretta e il golpe in Cile.  “Cosa facevo nel 2001? “Avevo un esame,  uno degli ultimi,  ma appena seppi cosa stava capitando accesi la tv,  come tanti altri in quel momento.  Mi inchiodai li davanti,  affondando sul divano,  incredulo,  stupito,  davanti a quelle immagini e tanto orrore. Quanti morti. Di li a poco capi anche che il Movimento no-global avrebbe subito una battuta d’arresto. E così la nostra libertà  di movimenti.  Stop.  E cosi fu. Guardai. Ancora. Spensi la tv. Chiusi la porta. Scesi velocemente con il libretto universitario a sinistra e col mio Nokia a destra chiamai M. per raccontarle e accordarci per la sera.  Mettemmo da parte incomprensioni e litigi e parlammo e lei mi raccontava durante il mio tragitto. Mi avviai verso Palazzo Nuovo.  L’esame… Poi ripenso a oggi,  a domani. Una targa dalle parti di Porta Susa mi dice “qui De Amicis scrisse Cuore”. La scuola. E così siamo arrivati alla vigilia del suono della prima campanella di una lunghissima serie: trilli da 50 minuti che accompagneranno milioni di ragazz* e professori tra passioni,  felicita’,  didattica,  competenze,  sapere,  conoscenze. Visi nuovi e conosciuti,  qualcuno assonnato altri reattivi,  altri abbronzati,  altri innamorati: ansie,  aspettative. Passione,  fantasia,  obiettivi. Chi ci sarà  e chi sarà altrove. Si racconta che il Principe di Conde’ abbia dormito profondamente…. beato lui. Certo non cerchero’ la merendina da mettere nella cartella come il mio primo giorno di scuola,  quello delle mie elementari,  e domani  non sarà mica  tempo di vendemmia come allora o del dopo Santo patrono d’Italia, appena trascorso a casa,  come un tempo accadeva al primo suono della campanella;  resta comunque dentro,  certo,  la stessa emozione di quel giorno.  Tra discussioni degli ultimi giorni sentii bisbigliare “noi,  che dalla scuola non ce ne siamo mai andati… “.  Che dire,  Buon inizio di anno scolastico,  2016-2017. E’ stata una bella parentesi estiva,  “una bella estate”,  iniziata in treno leggendo Pavese,  una ragazza seduta su di un treno affollato diretto verso il mare disegnava  il suo futuro. Una bella matita. Domani incontrero’ altri disegnatori. Buon viaggio. In questo Paese di santi,  navigatori ed eroi.20160911_193910

ps. i libri estivi sono stati davvero ben scelti. Un pochino caro quello su “Quale Francesco” (Chiara Frugoni).

La bella estate

20160702_123122La bella estate forse comincia cosi, un po’ per caso, con quella leggerezza che caratterizza i ragazzi. La bella estate inizia di prima mattina, Torino 2 7 2016. P.Susa.Foto Borrelli Romano.20160702_081702Milano.2 7 2016.foto Borrelli Romanoin attesa di un treno, che sai che passera’, ma non sai, o non vuoi sapere, dove portera’. Un treno frecciarossa e sai che “scavallerai”, scale mobili, piani, zaini, trolley, gente e storie che si sommano. La bella estate e’ un libro, ma e’ soprattutto vita, spensieratezza e lasciarsi accompagnare da un treno senza conoscerne le mete. E allora la bella estate e’ vita, comunque essa sia. C’e’ il sole e mi lascio vendemmiare. Ci sono i Saggi con i tablet alla mano, gonne righe e magliette fini, trecce di ogni colore e dai mille profumi; 2 7 2016.foto Borrelli Romano. Ragazza che disegnaragazze sedute a terra che disegnano sul blocco e immagginano il proprio futuro facendo danzare quella matita e quei fogli che sembrano nuvole e che diventeranni barche e con quale tempo e quale mare chi lo sa;  calzoncini corti, chi canta al suono di una chitarra, chi ride e chi aspetta dietro la curva di vedere il mare. La bella estate continua cosi. La bella estate non e’ solo un eco di ieri che risuona nell’oggine  domani. E’ un annuncio o preannuncio degli avvenimenti che verranno. E’ mare, sole, bruciore agli occhi quando la luce si fa forte e noi mano a visiera ci ripariamo. Io, come un fiume, sono tra questi. Au revoir…a tous le monde….a presto…mes amis.

Pasqua: dopo pranzo

20160327_185108Dopo la grande abbuffata, “liberi tutti” o quasi lungo le strade del centro di Torino. Sole nascosto, nuvole a macchia di leopardo e previsioni azzeccate: qualche spruzzo di pioggia qua’ e la’. Artisti di strada e decoratori di uova tra “smaltitori” di colombe (e non solo) e portatori o cercatori di farfalle. Per la sorpresa c’e’ sempre tempo. Per la cioccolata pure. Un paio di negozi aperti in via Roma, nota dolente e…stonata tra note perfette e ben accordate di pianoforte e chitarra sotto l’atrio della stazione di Torino Porta Nuova. Qui, si registrano arrivi, partenze e molte attese a gustare della buona musica gratuita sotto questa volta appena restituita a torinesi e non. L’Hotel Roma a due passi ma “la bella estate” e’ ancora distante da qui. Una giovane coppia, trolley alla mano staziona davanti in religioso silenzio. Per loro e’ una bella primavera.  Tram storici Torino 27 3 2016 foto Romano Borrellisferragliano ora su ora giu’ riportando il contesto in altra dimensione.

Una nota: l’ora legale e’ stata “spostata in avanti” di un’ ora e non due come risulta dall’orologio posto sull’edificio davanti alla vecchia stazione Porta Susa.Torino p.ta Susa 27 3 2016 foto Borrelli Romano

Cesare Pavese (Torino, hotel Roma)

DSCN3437DSCN3433La statale proveniente da S. terminava in una lunga discesa. A destra una pista prove, per auto, ne indicava l’arrivo, al mare. Era il segnale che davvero un anno di freddo, gelo, studio, lavoro, veniva riposto alle nostre spalle. A quell’altezza si poteva già percepire la sua presenza un paio di km prima: l’azzurro, verde era visibile e il profumo erano percepibili a chiunque.  Quella strada terminava con una rotonda, dei tempi andati. Un paio di traverse, una fontana e il cartello: via Cesare Pavese. Fin da piccolo questo nome, legato ad una abitazione, quella dei nonni, mi incuriosiva. Chi era? Dove era nato? Ogni volta, quando la bella stagione, l’estate, mi riportava nello stesso luogo, Cesare Pavese, risuonava nella testa. Una coppia mi precede. Lui accompagna lei, la precede. Lei si sofferma, pensierosa, forse sul mal di vivere. Osserva quello scrittoio, quella sedia. Sicuramente nella sua mente starà pensando ad alcuni personaggi dei tanti libri scritti dal suo autore preferito. Forse ora vacilla in quegli anni. Forse ora è Ginia, forse Amelia, o chissà chi. Forse starà pensando al mal di vivere o alla sua adolescenza, quando tutto era semplice. Su un blocchetto annota qualcosa. Sicuramente rileggerà quegli apppunti. A casa, al suo ritorno, la sera. Perchè casa è dove ci sentiamo amati. La sera provo a ripensarla, a rimontare e rileggere quel breve scritto. Magari ne avrà fatto una pagina di diario, o di blog. Chissà. Magari avrà scritto così. Ripenso a quel numero, il lungo corridoio, la porta, la poltrona rossa e quel silenzio, di rispetto e di amore. Forse era un regalo di lui, a lei, così studentessa, amante di lettere e delle lettere. Sarebbe stato bello parlarci un po’, a fondo. Onestamente. Sarebbe stato bello in un’ altra vita trovarsi sotto e passare qui, notti intere. A parlarsi. Raccontarsi.Viversi.

Passeggiavo immersa nella città semideserta, sospinta dal vento che avrebbe portato la nuova stagione. Caldo e freddo si facevano guerra sul cielo di Torino e proiettili di grandine precipitavano al suolo, davanti agli occhi stupiti dei passanti. Ero felice, anche gli altri mi sembravano per nulla turbati da quel fracasso, tutti fermi per qualche minuto ad osservare lo scenario.

Ad un tratto, inaspettatamente, qualcuno mi portò indietro nel tempo, esattamente a 63 anni fa, attraverso una porta, con un’ insegna (Hotel Roma), poi un ascensore e un corridoio. Infine un numero, 346. Io avevo già capito dove stavo andando, da chi. Era la stanza di Cesare Pavese, in cui trascorse gli ultimi mesi della sua vita, nell’angoscia di una fine programmata, a lungo rimandata, nella lacerante lotta interiore che sfinì quell’uomo così sensibile, quello scrittore così diverso dagli altri dei suoi anni, dai suoi amici impegnati politicamente. I suoi scritti erano più intimi, lui al confino a Brancaleone ci andò per amore. Quella stanza era così sua, come sua era Torino, allo stesso modo di S. Stefano Belbo, sprofondata fra le colline, anche quelle sue, parte di lui, colline che erano un limite da superare fisicamente e per la fantasia. La stanza numero 346 è piccola piccola, e chissà perchè gli è capitata proprio quella, se l’aveva scelta lui. Appena si entra c’è il bagno sulla sinistra e un pò più avanti, il letto, a fianco il telefono, poi la poltrona e la scrivania, procedendo avanti verso la finestra. Ho trattenuto il fiato mentre facevo scivolare le mani su quel mobilio, lo stesso che lui aveva toccato innumerevoli volte e che avevo immaginato quando leggevo “Il mestiere di vivere”, di tanto in tanto facevo riposare gli occhi e lo spirito da tutta quell’angoscia e provavo a focalizzare qualche immagine. Mi è parso di averlo visto su quel letto, tornando indietro dalla scrivania, con lo stomaco contratto come in ogni momento solenne, come un profeta al cospetto di Dio, come quando realizzi che stai rivivendo un pezzo di Storia e non ti senti più uomo, donna, ma parte del genere umano, parte di un Tutto, un Anima Mundi diluita nel corso dei secoli. E così io mi sentivo Uno, con quell’uomo che viveva di ricordi, perchè per lui “la vera scoperta non viene dalla cose nuove, ma dalle immagini del passato quando le cose accadono per la prima volta, che è la sola che conta davvero, quando la vita ci ha svelato il suo segreto e in preda a uno stupore terribile e delizioso siamo ancora vicini all’attimo in cui tutto è deciso per sempre e siamo pronti a ricordare ciò che siamo stati e ciò che saremo”. Per Cesare Pavese vivere era ricordare, la sua infanzia, le colline, il mondo agricolo, la terra, il volto dell’amore, il mare, Torino. Ferma davanti al suo letto, cercavo di fotografare ogni dettaglio di quello spazio in cui hanno raccolto il suo corpo stanco. Avrei voluto trovarlo ancora li, e chiedergli se addormentarsi quella sera è stato come se l’era immaginato, “come smettere un vizio” e se poi ha visto i suoi occhi, di lei. Ci vuole una gran forza per essere uomini veri, per conservare la dignità, per dare un senso ad una esistenza oggi ancor più precaria. Un pò di quella forza l’ho tratta dai suoi libri, perchè, diceva Guccini, “questo dolore che vagli tra le maglie del tuo cribro, svanisce un pò nel contemplare un fiore, si scorda fra le pagine di un libro”. Uscendo, la malinconia non aveva sopraffatto la speranza, e ho continuato a cercare me stessa. “Non si cerca che questo”.Hotel Roma Torino.foto Borrelli Romano

“La bella estate”, di Cesare Pavese. Oggi, come ieri. Un salto presso l’Hotel Roma ( ringrazio il personale per avermi accompagnato con professionalità presso la stanza del grande scrittore, fornendomi indicazioni per ogni oggetto presente), a Torino, in assoluto silenzio, quasi religioso. Un corridoio, con tappeti rossi a terra e stanze a destra e sinistra. In fondo, a sinistra, la numero 346, quella di Cesare Pavese. Un’impiegata molto gentile apre lentamente, con delicatezza, la 346. Con professionalità, anche se un gesto ripetuto chissà quante volte, si lascia  in disparte, per lasciarci il tempo di assaporare quell’atmosfera, per lasciare la possibilità di respirare quegli anni, quella Torino, forse grigia, forse crepuscolare, per alcuni versi così diversa e perfino così uguale alla Torino di oggi. Tante storie, personaggi paiono addensarsi in questi pochi metri quadrati. Un telefono nero, a muro, di quelli che ormai non si trovano più, neanche presso qualche mercatino delle pulci, il letto, la poltrona rossa, uno scrittoio. Quante emozioni. Immaginare lo scrittore piemontese intento a scrivere chino, lì sopra…Una giovane coppia, intenta come me, a saltellare negli anni, scatta alcune fotografie.Lei, si pone al centro della stanza, osserva con rispetto la scrivania, lo scrittoio, quei colori un po’ particolari. E’ librata, sicuramente gli anni che sta vivendo in questo frangente, non sono questi, sono altri, quelli dello scrittore. Respira nostalgia, angosce, desideri, e forse amore. Sembra aver tolto il tappo dalla bottiglia dei ricordi. I suoi occhi, ad altri occhi attenti, svelano molto: libri, toli di libri, pagine e pagine di libri letti in chissà quanti anni, pur essendo così giovane. L’emozione è forte. Uno zaino tradisce la sua identità, una turista, appena scesa dal treno. Non una gelateria, non un caffè o un bicerin,  non una salita presso la Mole Antonelliana, ma la visita presso la stanza di Cesare Pavese. Questa la meta del suo primo viaggio. Un giorno particolare. Appena scesa dal treno. La stazione, i giardini. Provo ad immaginare all’interno di quella bottiglia quali pensieri, quali frammenti di storia individuale “stapperà”  e sfilaccerà una volta tornata a casa. Mi pare di leggerle i suoi pensieri.

Era così bello avere tra le mani la sua, le pagine di Pavese, la sua poesia.

La città, in questo fine agosto, sembra svegliarsi da un torpore, da un letargo. La grandine dei giorni passati sembra aver spazzato via la bella stagione.

Poco distante da qui, via Roma, Piazza San Carlo, Piazza Castello, via Po da una parte, via Garibaldi dall’altra. Torino, un po’ passato, un po’ presente. Pian pianino chi aveva scelto altre mete per passare qualche giorno di vacanza, rientra e lentamente la città si rianima.