Era da un po` di tempo che mi frullavano nella testa alcune cose, incomprese, o comprese a metà, o semplicemente per il non volerle accettare, in quel nostro essere finiti, come in una mancanza, delle parole o di persone. Volevo indagare, “Morettianamente” scrivendo, come quando nella “Stanza del Figlio” Nanni, si è infilato in un negozio di attrezzi per sub cercando di capire il perché non era filtrata aria nel respiratore incriminato per la morte del figlio. Volevo sentire chi ha visto “iddo” ancora una volta, e farmelo raccontare, per sentirmelo ancora vicino, indirettamente, in un lessico intimo, famigliare, scivolato troppo velocemente nell’incomprensibile, dei nostri incontri quotidiani sempre nuovi. L’infermiera parlava, ripescava dalla sua memoria parole ben curate, pettinate, come fossero la medicina adatta al malessere ingiusto chiamata malinconia, nostalgia o mancanza. Sfogliava parole dai suoi ricordi, di una notte buia, che si affrettava a ad essere tempestosa e fredda. Erano le 5, poi le 6, diventate ben presto e troppo tardi allo stesso tempo, le 6.53, quando l’orologio si fermò. Le pagine, forse quelle adatte, da sfogliare realmente, potrebbero esssere “Idda” (di Michela Marzano), e “Lessico Famigliare”…Forse. Non restava che lasciare l’infermiera, oltre il tavolo, e portarmi a casa le mie pagine nella mia testa. Perché chi non ha un lessico famigliare tutto suo? Noi, per esempio,in famiglia, ne avevamo uno. Poi, ne abbiamo avuto un altro, da grandi, quando gli incontri erano diventati sempre nuovi e non restava che conoscerci perché il riconoscerci si affievoliva, giorno dopo giorno. Erano belle quelle parole, che non erano “sempiezzi” e neanche “malegrazie”, ma semplici come acqua e bere erano “brumba”, con i bicchieri di plastica azzurro e arancione. Quelle da grandi,e ultime, le ho dimenticate, per restare in tema, perché mio padre lo voglio ricordare quando il lessico lo dirigeva elo inventava, non quando ha incominciato a subirlo perche ogni parola era diventata sempre nuova.
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28 Ottobre
Il 28 ottobre ha le lancette nel segno. L’ora legale ha lasciato il posto a quella solare e l’arrivederci è a fine marzo, quando saremo 6 mesi piu grandi. L’effetto è già evidente, lungo le strade della citta’, sotto un cielo scuro e lattiginoso. Il cielo, al tramonto, non è più rosato e setoso e la pioggia ci ha messo del suo per rendere il tutto più “freddo”. I cappotti si muovono goffi, strada facendo, e qualcuno emana odore di naftalina. Alle 18 in punto, il buio. Le luci artificiali della città cominciano il loro lavoro in attesa dell’aggiunta “Luci d’Artista” che prendera il via e vita il 31 di ottobre. Filastrocche e disegni e nasi all’insù ci condurranno ancora una volta a spasso per le strade e le stelle cittadine. Ma il 28 ottobre ha nel segno e negli occhi un cappellino e due “mandorle”, due calci ad un pallone, in una partita mista dal buon finale. Erano bei tempi, avrebbe cantato Vecchioni. Luci a Valdocco. Anni prima di quelle d’ Artista.
Vestite d’argento
Reduce da seminario e giornate di studi medievali e “leggi razziali” mi rendo conto dei giorni silenziosi su questo blog.
Mentre in alcune zone del Sud, in Salento, sento dire e vedo immagini targate Internet che sono all’81 di agosto, con corpi a mollo a mare, la collina torinese, viceversa, si veste di colori autunnali: giallo, rosso, arancione, verde, residuo di una estate che davvero fa fatica ad abdicare. L’aria è calda e sono più numerose le t shirt che giubbini a contendersi la scena e fare apparizioni, slalom, e nascondersi lungo le vie del centro. Le castagne o “caldarroste” tengono banco e forse sono davvero l’altra cosa che richiama l’autunno insieme ai colori. Coppie dai sacchetti a coni, uma mano uno, una mano l’altra, nella pesca del cono da passeggio. Per Luci d’ Artista, giunta alla sua ventunesima edizione, ci sarà tempo: l’inaugurazione è prevista per il 31 0ttobre quando in Salento, molto probabilmente sarà 92 agosto. Tempo permettendo. In attesa delle 24 installazioni di Luci d’Artista, per le strade torinesi, visi orientali fanno la loro presenza, mentre dall’altra parte, del mondo, l’Italia del volley fa la sua, presenza, e bella figura in finale, vestita d’argento. Complimenti.
Dopo Portici di carta
Sotto i portici del centro di Torino, quelli che da piazza Castello si snodano verso Porta Nuova attraversando piazza San Carlo, per intenderci, il profumo della carta da libro è ancora forte e così come avviene per le conchiglie che in un certo qual modo conservano il rumore del mare, qui sotto, si conserva ancora il rumore delle pagine sfogliate nel week-end da migliaia di mani, da potenziali lettori e compratori. Sicuramente curiosi. Portici di carta, la più grande libreria mondiale all’aperto ha “chiuso da poco i battenti” mai aprirli dato che il tutto, oramai da anni, si svolge all’aperto. Portici come piazza, luogo di incontro tra librai, editori, lettori, come “rilancio” della pratica del leggere in un Paese dove la percentuale dei lettori si assesta su livelli davvero bassi. Portici di carta, nella città del salone del libro, dove la bellezza cittadina si coniuga all’amore per la lettura. E quest’anno l’edizione si e` svolta pensando ad un personaggio particolare, con le trecce, lentiggini, i calzettoni, una scimmietta sulle spalle, le mani e la sua forza: Pippi Calzelunghe. Fu proprio il libro fumetto di Pippi che segnò l’avvio personale alla lettura. Ed è con questo pensiero che percorro i 2 km intervallati dalle colonne del centro. Potevo avere una macchinina, un pallone e senza saper leggere e scrivere scelsi il libro di Pippi Calzelunghe.
30 Settembre
L’autunno entra prepotentemente sulla scena, mentre dalle finestre una musica risuona ancora, da ieri, “29 Settembre”. E le note “seduto in quel caffè” hanno lo stesso gusto di ieri, di oggi, e lo avranno ancge domani, anche se a cantare sono due capigliature differenti: quella del grande Lucio o quella del Principe Vandelli. Perche le cose buone, sono per sempre. Una delle poche certezze in questo tempo centrifugato. Gia’, perche’ a parlare di cafe’, viene in mente quello Hag, un pochino amaro, per i dipendenti e per una storia di “delocalizzazione”. Alle “porte” di Chieri. Settembre sta per lasciare la scena, e come un rito di passaggio consegna definitivamente l’estate, il mare, le vacanze, all’album dei ricordi. “Bye bye”. Annalisa, con la sua canzone, ha fatto innamorare e cantare milioni di italiani, scalzi, sulla sabbia, in riva al mare, in discoteca, in casa, e forse l’estate la ricorderemo anche per questo. Un’ estate in viaggio. Le giornate, ad ogni “numero” del calendario “strappato”, lentamente si accorciano e viceversa le campanelle della scuola ci consegnano un orario provvisorio, “quasi definitivo”. Piccoli ritocchi in corso d’opera. Molti eventi nella nostra città, alcuni terminati, come Terra Madre e altri, (ancora per poco), in via di chiusura, come Torino Spiritualità. Con una fetta di torta in mano e due gocce di spumante,e profumo di castagne alle porte, festeggio il compleanno di mio padre. Alle soglie del 1 Ottobre.
Settembre
Settembre, ha un sapore dolce, con un certo retrogusto particolare, un pochino come capita per le canzoni di Lucio, giusto 20 anni senza di lui: canzoni dolci, un pochino tristi, ma belle, al sapore di latte e miele. 20 anni senza Lucio. Quel giorno rientravo dalle Cinque Terre, e nel farlo, dalla stazione a casa, M, tutta bella abbronzata, con i suoi occhi a fessura, capelli lunghi, fronte alzata con addosso i profumi dell’estate mi indicava le finestre, aperte, e da ciascuna di quelle, quasi in contemporanea, uscivano note di ogni sua canzone. Reclinando il capo, prendendomi la mano, si mise a canticchiare, emozioni, al ritmo di un’avventura un pochino lunga. Avevamo la chitarra, tra le mani, con la canadese. Tre giri, e Battisti e’ il primo che si impara a suonare. Settembre, e il mondo delle canzoni è pieno, a scorrere il mese, almeno fino al 29. Di settembre. Abbronzatura che resiste, altra che lentamente sparisce, complice qualche maglioncino che copre e ricopre. Settembre che ha come compito quello di portare la novella, di segnare il passo, nell’ annunciare l’imminente autunno, e nel farlo, punta i suoi piedi ben fermi nell’estate, che apre con un Collegio docenti e continua con suoni di prime campanelle. L’estate sta finendo, certo, ma intanto ombrelloni aperti resistono su qualche spiaggia della nostra penisola. Sui bus e dai bus, la vita riprende lentamente: un uomo, con palla da rugby in mano, predica, e inveisce, contro tutto è tutti. Un altro, ha guanti pesanti, e parla da solo…
15 8 2018
Diventa quasi imbarazzante augurare buon ferragosto dopo la sciagura di ieri, a Genova: il crollo del ponte Morandi. Una sciagura. Ieri pomeriggio alcuni canali tv rimandavano le immagini del disastro con la pioggia battente, incessante, a dirotto, quasi a voler significare che nelle tragedie, nulla poi viene a mancare, (insomma, non ci facciamo mancare proprio niente), le case a ridosso, sotto quel tratto di ponte, rimasto in piedi, (sotto quel ponte, che doveva sembrare a molti, un tetto aggiuntivo), i soccorsi, la confusione, i fasci della ferrovia, il letto di un fiume, un furgone a pochi metri dal precipitare, (e molti altri, caduti, in seguito al crollo) il viadotto sulla A 10. Impariamo tutti alcuni nomi e altri ne ripassiamo. Che quel ponte, simile alla lontana, a quello americano, ricordava a molti “la gomma del ponte”, che ad inaugurarlo fu un Presidente della Repubblica, Saragat (1967) e che le problematiche furono molte, fin dagli inizi, anche se, a detta di molti, avrebbe aiutato a “decongestionare” e molto il traffico. La “camionabile” qualcuno la chiamava. Ancora, la “Gronda”. E poi, i titoli dei giirnali di questa mattina, più o meno così : “Come in guerra”, Genova ferita”, ” Genova divisa in due”. Il pensiero ovviamente va alle vittime e famigliari e a tutta Genova. Poi sarà il tempo per accertare responsabilità e ricostruire, rispettando la natura, il suolo, utilizzando nuovi criteri. Ricordo il ferragosto di anni addietro, Sandro Curzi, direttore di un giornale, scriveva sempre il suo editoriale, con lo stato del Paese, augurando un buon ferragosto e sperando in qualcosa di migliore, a partire da domani.
5 Agosto 2018
Madonna Della Neve. Da una delle tante botole, poste “solennemente” in cima, osservando il soffitto della Basilica di Santa Maria Maggiore, a Roma il 5 agosto di ogni anno, come per magia, “scende neve”. Più volte mi è capitato di partecipare a questa funzione; o perché stazionavo a Roma o perché “in avanzo di tempo” e in procinto di prendere altro treno, direzione Salento. E ogni volta, con zaino o senza, sempre sotto una cappa di afa o sole africano, a “fette”, con la mia bottiglietta dell’acqua (come tanti altri): “Mangiatorella” era la mia, tra le mani, con la “scucchia” protesa verso l’alto ad invidiare quella “neve” anticipatrice di un tempo, certamente più clemente e fresco. Non solo l’occhiata al calendario e la giornata dedicata a Santa Maria della Neve (Santa Maria e’ una festa molto sentita in Salento, con Villa e banda e bancarelle di dolciumi e giocattoli di ogni tipo e nonni in coda alla posta per il ritiro della “paca” anche quando nel corso degli anni non è più paga ma pensione) mi riportano contemporaneamente a Roma (non certo la spiaggia “Tiberis”) e in Salento ma in particolar modo rivivo Roma grazie alla conclusione del libro di P. P. P. “Vita Violenta”. Questo Tommaso, protagonista, nel bene e nel male, del testo, con la sua crescita personale, sociale, politica e l’amore per Irene mi hanno lasciato davvero il segno. Quando si termina la lettura di un libro è un po’ come lasciarsi con una persona cara, che ha instillato qualcosa dentro, un mix di emozioni alle quali, per molto tempo, non si riesce a dare un nome, conoscerle, riconoscerle. Certo non voglio svelare nulla di questo testo ma i personaggi li ho trovati unici, grezzi e delicati allo stesso tempo, con tratti psicologici simili a quelli narrati da Dostoevskij. In particolar modo, Tommaso e Irene. La profondità dell’animo umano, la discesa negli abissi e la voglia di riscatto. Ecco, Tommaso ha avuto una grandissima voglia di riscatto. Anche nel congedarsi, dagli amici: “non state qua con me. È domenica, andate a divertirvi… “, più o meno, questo è il senso della frase in uno degli ultimi versi che non descrivero’ (mi piacerebbe invogliare i miei studenti alla sua lettura). E poi l’amore per Irene e quello di questa per Tommaso. Un bellissimo libro. Davvero.
Bologna 2 agosto. 10. 26
2 agosto. Il treno corre, i momenti di spensieratezza alle spalle e tra poco identica sorte tocchera’ al mar Adriatico: lasciata Rimini, sulla destra, direzione Nord, mentre si allontana sempre più, col suo porticciolo, il ponte, l’arco, e mentre l’intercity Pescara Milano accelera la sua corsa e rende sempre più distante ogni cosa. È sempre triste lasciarsi cosi, ma è la vita, il suo corso, e la corsa di questo treno. Poi, molto sfuma, “vola” via: alberi, case, trattori, terra appena lavorata. Frutta, alberi da frutta, chi la raccoglie, chi no, cassette piene e vuote, lavoro, uno stadio, sulla sinistra: e’ Cesena, che “mi ritorna in mente” quando era in serie A, con un grande giocatore, passato poi al Torino. E’ Cesena, che il “notturno”un tempo rasentava la cittadina alle 0.1. 50, e in tanti a correre al finestrino, quando l’aria condizionata ancora non c’era e piaceva godersi la notte a molti. Ed erano sicuramente certe notti. E piaceva guardare davanti, che indietro c’era rimasta la fabbrica e le sue porte e finalmente si era in ferie! E pace alle zanzare e a quel caldo appiccicoso. La tredicesima rendeva un pochino piu ricchi, e con quella e lo stato di famiglia si faceva il biglietto per tutti e il Sud era a portata di mano. Ah, si intende: posti in treno rigorosamente a sedere; per le cuccette non sarebbero bastati i soldi di quel premio produzione. Poi, e’ la volta di Faenza, con un giro che non so se “di do” ma di memoria “si”, e spunta con il ricordo del treno delle 7. 30, un cuore di metallo senza l’anima, e Marco che chissà dove è, ora, e se ogni tanto ci pensa ancora, a Laura. Laura che nel frattempo e’ cresciuta e divenuta famosa. Quello era il tempo della Laura piccolina, studentessa e al Festival, così che ogni volta che ci passi, da questa cittadina, ripensi a quel periodo e alle sue nebbia (cittadine)e al suo buon cibo. E a quelle sue canzoni che fecero amare, innamorare e piangere. Strani amori. Il cibo peto’, quello si che rende allegri! E poi, le vacanze di Natale, il freddo pungente, le belle ragazze… poi lentamente arrivi a Bologna. La locomotiva tossisce, rallenta, non riesce ad espettorare, neanche dando un colpo con la mano. Un paio di gocce scivolano sul finestrino. Umore acqueo della locomotiva. Sono passate da poco le 10 di mattina. È il 2 di agosto. “Io non dimentico”. C’è il bus 37 in piazza, oggi, come nel 1980, che da bus cittadino divenne ben presto una sorta di ambulanza dopo lo scoppio di quella bomba lanciata propria nella stazione di Bologna. Io non dimentico. Sono le 10. 26. A Bologna.
Recanati
Dopo un breve passaggio a Loreto per un ripasso veloce sul significato delle formelle poste sui portali della Basilica (nascita di Adamo, Eva, nascita del lavoro, teologicamente, uccisione di Abele, cacciata dal Paradiso, caduta, ecc. ecc. ), all’interno della Basilica, sulle sibille e profeti, sul Pomarancio e sul Lotto, d’obbligo era il recarmi ancora una volta presso “Casa Leopardi”, a Recanati, città della poesia. C’ero stato un paio di volte ma ad ogni visita aggiungo un pezzetto di conoscenze che per un motivo o un altro non avevo ben recepito nelle passate visite. Solo un dato si è scolpito bene-bene fin dalla prima visita: la quantità di libri letti dal poeta italiano, catalogati dalla stessa famiglia ed esposti al pubblico. Un gioiello, una biblioteca che il papà di Giacomo avrebbe voluto a disposizione di molti. Un’ altra informazione che voglio condividere e ritengo sia utile a quanti si appresteranno in futuro a fare visita. Nel Palazzo che si apre al turista si manifesta con tutta la sua imponenza con uno scalone monumentale, il primo consiglio-obbligo, utile e’ che non è ammesso scattare fotografie. Nel Palazzo infatti (che vede la prima pietra di costruzione, indietro negli anni, ben prima dell’insediamento del Conte Monaldo), al secondo piano, risiedono ancora i discendenti di Giacomo Leopardi. Unica concessione, si possono scattare foto ma fuori dalla finestra della biblioteca, affaccio direzione piazza e casa di “Silvia”. Il caldo è davvero insopportabile e quel piccolo fazzoletto di ombra prima dell’accesso e inizio percorso con visita guidata, ce lo contendiamo in una quindicina di innamorati della cultura e della storia di un grande uomo, poeta, letterato, e della sua grande famiglia. Nell’attesa che si faccia l’ora esatta per la visita, si sconfigge il caldo con tutti gli stumenti a disposizione: ventagli, acqua e ventilatori portatili, di quelli a pila. Si, anche questi, “ventolatoli” con pile a “mandola”. Troppo forti e simpatici. Gli orientali non si fanno mancare nulla, neanche l’autan contro le punture dei “moschito”.
Tra i 12 mila e i 15 mila, letti dal giovane Giacomo, la sua biblioteca, il ruolo dei precettori, il suo luogo di studio e punto di osservazione per la bella Silvia, cioè Teresa Fattorini. “Ah, Silvia… ” morta così precocemente, nel fiore degli anni, quando a quella età, normalmente si progetta, si programma. Ma “a Silvia” era più che altro la necessità di scrivere, 10 anni dopo la morte di Teresa, un giudizio sulle speranze disattese dei giovani. Questa volta non mi sono fatto mancare una visita presso la residenza dei Fattorini (il papà di Giacomo, Conte Monaldo, aveva promosso a rango superiore quello di Teresa, adibendolo a cocchiere di famiglia), la dimora di Teresa (la Silvia), la sua cameretta, i suoi attrezzi da lavoro. “E l’amore? C’era posto per l’amore tra Giacomo e Teresa? ” Chiede qualcuno tra i visitatori. Certamente i due, Giacomo e Teresa, si conoscevano e probabilmente qualche scritto e qualche occhiata ci saranno stati ma… socialmente erano posti su gradini differenti, quindi, probabilmente, niente amore. Anche se il dubbio, a visita conclusa, a qualcuno, resta.