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Ferrara

Ho seguito kilometro dopo kilometro la linea ferroviaria che da Bologna procede verso Ferrara immaginando di rileggere riga dopo riga uno dei libri di Giorgio Bassani, “Gli occhiali d’oro”. I due palazzi, grattacieli, adiacenti la stazione, sono visibili in lontananza, dal treno stesso, e ne annunciano,  al viaggiatore, l’arrivo nella cittadina estense. Con un pizzico di fortuna sono riuscito nell’intento di raggiungere la meta prefissata, nonostante lo sciopero ferroviario, proclamato da una organizzazione sindacale. Appena sceso dal treno sono immerso e attanagliato  da  un misto di foschia e da una morsa di gelo. Attraverso il corso facendomi strada tra persone in attesa di qualche bus.  Accelero il passo, da percepire cosi facendo,  il minor freddo possibile. Passo tra due palazzi, uno spiazzo aperto, come fosse un cortile. Lo oltrepasso. Riflettori e transenne mi annunciano che sono sul terreno della Spal (squadra di calcio ferrarese); costeggio lo stadio e cammino sempre diritto:Ferrara 17 12 2017.Romano Borrelli foto nel giro di 5 o 6 minuti  giungo al Castello EstenseFerrara.17 12 2017, Borrelli Romano foto. Le cose da rivedere sono molte, dal castello stesso, al Ferrara.17 12 2017,Borrelli Romano fotoDuomo (il Guercino, sfuggitomi a giugno!), al Palazzo Costabili, detto di Ludovic(in particolar modo la Sala del Tesoro e la rappresentazione delle due sorelle, Beatrice e Isabella, affacciate al balcone) ancora, Schifanoia (e qui la fortuna è doppia).  Al palazzo Schifanoia,  una guida davvero competente, gentile, ben preparata, spiega il Salone dei Mesi, cosa ne e’ rimasto, la suddivisione dei registri, dei personaggi, della vita di corte, e non solo, di Ferrara, del buon governo, di Borso d’Este, raffigurati da Francesco Del Cossa, Cosme’ Tura, Ercole De’ Roberti. Poi, è la volta  della visita presso il  convento del Corpus Domini (e un ringraziamento alle suore che ne hanno permesso la visita fuori orario) dove sono collocate le tombe degli Estensi e quella di Lucrezia Borgia. Infine, il complesso che ospita la mostra sugli ebrei. Tutto veloce, compatto, ma ora che sono di ritorno, in treno, penso ne sia valsa davvero la pena. Ferrara, merita davvero. Tanta dolcezza…un pochino è con me. Vassoi di doci caratteristici sono al mio seguito. Ben conservati. Ancora per poco.

 

 

Torino. E’ generale. Sciopero 12-12-2014

TORINO 12 dic 2014, foto Borrelli Romano20141212_102529TORINo 12 dic 2014 foto Borrelli Romano20141212_10295220141212_100451Torino 12 dic 2014,foto Borrelli RomanoTorino 12 dicembre 2014, foto di Romano BorrelliTorino 12 dicembre 2014 foto di Borrelli RomanoTorino, 12 dicembre 2014, foto Borrelli Romano20141212_10312420141212_10333212 dic 2014, Torino, foto Borrelli Romano12 dic 2014, Torino. Borrelli Romano12 dic 2014 Torino. Romano Borrelli12 dic 2014 Torino. Borrelli Romano12 -12-2014, foto Borrelli Romano12 12 2014, Torino. Foto Borrelli RomanoTorino, 12 dicembre 2014, foto Romano BorrelliTorino 12 dicembre 2014, foto, Romano Borrelli20141212_120612Torino 12 dicembre 2014, Piazza San Carlo, foto, Borrelli RomanoLasciamo parlare le immagini di questa bellissima piazza. Giovani, operai, cassintegrati, studenti, universitari, in mobilita’, e gente costretta a licenziarsi pur di averla ancora e uscire dalla tagliola Fornero, professori, tecnici, amministrativi, collaboratori, disoccupati, vigili del fuoco, donne, uomini per dire e gridare che “non ci siamo”. Una giornata colorata e parecchio, gelata per dire no, che cosi proprio non va.

Lungo il corteo amiche, amici, compagne, compagne…Turigliatto (Franco) in testa,  Airaudo  (Giorgio) e tantissima bella gente.

Il corteo, “fratello gemello” del primo maggio termina, meglio,  “sfocia” in  piazza San Carlo con un interessantissimo elenco di articoli della Costituzione e l’intervento della Camusso. Una parte del corteo da Piazza Castello prosegue verso via Pietro Micca per svoltare poi a destra verso il Comune. Da qui, svolta a sinistra  verso via Garibaldi fino a dividersi in due tronconi ulteriori…

Ps. Tra questo mare di gente ho potuto constatare che e’ partito ufficialmente il mantra “ci dobbiamo assolutamente vedere prima di Natale…combiniamo dai!”

Oramai la giornata è terminata. Si conta quanta gente ha aderito allo sciopero, quanti erano presenti in piazza e via dicendo…pero’ fa riflettere il fatto di aver cominciato la giornata con un caffè, tra le pieghe di un racconto, di una storia  e questa si è trasformata in realtà. Torino 12 dicembre 2014, Bar Casa del caffè, foto, Romano BorrelliPiazza San Carlo sembrava la piazza di altri tempi, di altri anni. Piena, partecipata, colorata, attenta. Ogni parola del comizio non sfuggiva e non doveva sfuggire. Quella parte del corteo, defilatasi, arriva a due passi dello stesso bar. E il cordone dei poliziotti, fermo, sotto l’arco,  riflesso  contro le vetrine del bar…uno sguardo reciproco e poi…ognuno per la propria strada…via Garibaldi il primo, il Comune il secondo…

Ora non resta che dire: è stata una bella giornata. Buonanotte Torino. Uno sguardo alla Mole e…un saluto alla piazza.Torino, 12 dicembre, piazza Castello e la Mole. Foto, Romano Borrelli

Città aperta

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Torino, città delle piazze. Una, fra le tante, o meglio, tutte, se pensate per tutti, Piazza delle medaglie, della gente comune, e da appuntare alla gente comune, che pero’ non gareggia, in uno sport, ma nella vita, a cercare il posto giusto, ma senza competitività,  che sciopera, per un domani migliore, per sé, e per altri,  talvolta, e si ritrova qua, dopo un lungo corteo, gente che  esce dall’Università, e talvolta luogo  delle studentesse e degli studenti, che manifestano per i tagli, alla scuola, e qualcuno ne è uscito col dito ammaccato, gente che esce dagli uffici, da scuola, da messa, dalla bellissima Basilica di  San Lorenzo,  che passeggia, che si innamora, si rinfranca cercando una panchina…che esce dalla Regione….Piazza che installa e gente che si installa. Quando poi, scuola, lavoro e amore confluiscono, come il primo di maggio, è l’apoteosi. Giapponesi e non, sempre con la macchinetta fotografica alla mano e gente che è alla mano. Una piazza nel cuore sempre aperto di Torino. Panchine, libri  e giornale cittadino sempre aperti. Coppiette, con trancio di pizza, “focaccia ligure“,  quella comprata sotto i portici,  o in alternativa, parole, miele, che non è mai troppo, e amore. E’ sufficiente. In lontananza le luci di via Roma e via Po, e via Pietro Micca. Da qualche zaino, di qualche scolaresca, di tanto in tanto, fuoriesce un  pallone.  Per brevissimi istanti. Ma la piazza è un “quadro” e tale si conserva, e folle di turisti e residenti, sono in coda, per vedere. Una “Sacra famiglia“, come tante altre che girano, qui intorno. Raffaello intanto, osserva con occhio fermo e si lascia osservare. La piazza va fotografata, conservata, “mostrata”.   Un pallone, dicevo, talvolta, data la dimensione, è già “fuori”, come il pallone-occhio. Il pallone mongolfiera, e i suoi “mongolfolli”, che staziona a Borgo Dora e che ricorda come siano sempre attuali i livelli di vita; quando il cielo è pulito, si riesce a vedere anche il Sud, e il suo mare, e la sabbia di velluto. Da lassù, Torino: una grande bellezza. Ma occorre anche “stare dentro“, e questa piazza aiuta, a godere di ogni piccolo istante, anche una semplice camminata, la lettura di un libro: una mindfulness. Un “pallone” tirato troppo forte  e troppo in aria, ridiscende velocemente, alle spalle di Piazza Castello. Ma, una mano, è pronta ad accoglierlo. Le mani, solo talvolta sono piene. Non mancano mai,  nella gente comune, le mani tesi, aperte, pronte all’accoglienza. Città che accoglie. Che ci prova, ad amare. Città che resiste, e che per questo, la sua medaglia, questa si, d’oro, alla Resistenza,  la detiene e la conserva.  Città aperta. Torino.

Difendiamo la scuola. Difendiamo la costituzione. Guardiamo alla lotta di classe in Wisconsin

Solamente un quinto degli italiani possiede davvero le competenze linguistiche e culturali per affrontare la società odierna; la restante enorme parte del Paese è variamente classificabile sotto una delle categorie di analfabetismo. E la situazione, anziché migliorare, si aggrava progressivamente” (Tullio De Mauro su Internazionale, 6 marzo 2008).

Nel prossimo anno i tagli alla scuola saranno pesanti. Ventimila cattedre in meno. L’ultimo taglio previsto da questo Governo, nel giro di tre anni. “Risparmio di otto miliardi di euro”. Dopo aver salvato l’insalvabile: banche, imprese… E così, dai farewell, precari, di città in città, di scuola in scuola, dove ogni passaggio “settembrino”, (di diritto settembre-agosto o di fatto settembre-giugno come i contratti che la scuola ci rifila tutti gli anni, invece di stabilizzarci tutti), risulta essere simile ad un’audizione, a settembre, probabilmente, molti di noi saranno privati anche di quella. Fine dell’audizione.

Si rischierà, infatti, in forza dei tagli, ad un’iscrizione forzata all’ufficio di collocamento. O, al piu’, una “exit”, dal momento che la “voice” è stata poco attuata per l’individualismo esasperato, di chi ha preferito “intascare la giornata” e pensare al suo presente anzicchè aderire agli scioperi. A proposito di scioperi: 4 ore a maggio, proclamate dalla Cgil, davvero, sono simili ad una merendina che a poco serve. Certo tutto è piu’ difficile, in questa “macelleria sociale”, in questo Paese che rassomiglia ogni giorno ad una sartoria, dove si effettuano solo “tagli” (“ripara e cuci”, questi, proprio no). Exit, all’estero. La notizia di questi giorni, dei tagli al mondo della scuola, si somma alle ulteriori critiche piovute sullo stesso mondo, quello inerente alla scuola ma “statale”, ai suoi insegnanti, ai lavoratori in generale della scuola. Critiche, insofferenze quelle del Presidente del Consiglio rivolta agli insegnanti e al loro metodo di “inculcare” nozioni, informazioni, sapere. Naturalmente, critica smentita, perché, come sostiene sempre il giorno successivo di ogni affermazione, “non era quello il significato” da lui attribuito. Certo. Penso che il ruolo di tutti i lavoratori della scuola sia quello di indirizzare gli alunni ad innamorarsi del sapere, rendere gli studenti “artefici” come ci ricordava un lettore-insegnante di un noto quotidiano torinese.

Nessuno ha mai utilizzato un termine, così basso, come inculcare, per parlare di educazione. Artefici invece fa pensare ad una ricerca di verità, giustizia, amore per il sapere. Una ricerca divina. Non stanchiamoci mai di fare riflessioni, porci domande e sviluppare senso critico. E così si è consumato un ulteriore attacco alla scuola. Uno snocciolare continuo di attacchi, i suoi, che vorrebbero privatizzare ogni aspetto della società. Dopo quello sulla festa del lavoro, dove, secondo alcuni governanti, sarebbe inopportuna. Già, dopo che il capitale ci ha “spolpato”, ora vorrebbero toglierci anche la festa del primo maggio. Intorno alla politica dei padroni del vapore, questo nostro Bel Paese, sta perdendo anche la maiuscola nella lettera iniziale. Dopo la critica ad una rigida “puntigliosità” del Quirinale, rivolta dal Governo, (e per fortuna che lo è, il Presidente della Repubblica, così puntiglioso e speriamo in futuro lo sarà ancor piu’) ancora una volta, la scuola. Proprio in questi giorni in cui ci avviamo a festeggiare il 150 dell’Unità d’Italia, (sempre “piu’ disunita”, invece), incapace di comprendere questa fumosità dei tempi. La scuola, così tartassata, così declassata, così umiliata. Eppure nel 1866 Pasquale Villari sosteneva che vi era nel seno della Nazione un nemico piu’ potente dell’Austria: ”la nostra colossale ignoranza”. Tre italiani su quattro erano analfabeti. Solo con il nuovo secolo si avrà un’esigua maggioranza di cittadini capaci di leggere e scrivere.

Nell’Italia pre-unitaria è bene ricordare che il 44% dei bimbi non superano la soglia di una scuola, “perché non arriva ai cinque anni di vita”.

A Torino sotto Carlo Felice, la scolarità è pari al 45%.

A Genova al 26%. A Roma sono presenti 45 scuole serali e 55 scuole tecniche commerciali.

Nel 1901 la percentuale degli analfabeti era scesa al 48,5%. L’eredità pre-unitaria ci lasciava in dote 210 Biblioteche di cui 164 aperte al pubblico, distribuite in 45 città.

Nel 2010 la percentuale di chi leggeva almeno un libro era pari al 46,8%. In questa percentuale, le donne leggono di piu’ degli uomini. Nel 1973 invece, leggevano di piu’ gli uomini.

D’Amico Nicola sostiene che “la scuola è una semina a raccolta assai differita per chi governa e per l’intero Paese”. E oggi, invece, cosa si fa? Si taglia! Anni e anni passati ad investire sulla scuola e ora…Si vorrebbe rendere la scuola un modello similare a quello statunitense. Un po’ come la salute. Dimenticando che qui, in Italia, la longevità vorrà dire qualcosa, no? Dal momento che la sanità è gratuita, universale, per tutti, mentre negli Usa, al piu’, l’assicurazione “paga” al termine del ciclo lavorativo. In quel Paese, quanti milioni sono privi copertura sanitaria? Eppure, a leggere le cronache di questi giorni, proprio da quel grande Paese, dal Wisconsin balzano le cronache di una presa di coscienza, di una lotta di classe. Già! in un periodo in cui le classi sociali vengono dichiarate defunte o ricordi di un passato ormai lontano, proprio in quel Paese si sta contrapponendo in questi giorni una durissima lotta di classe tra i “robber barons”, capitalisti vecchio stampo e lavoratori organizzati.

Il Governatore, Walker, vuole infatti tagliare a tutti i dipendenti pubblici il diritto al contratto di lavoro collettivo, tagliare gli stipendi e aumentare i contributi sanitari e pensionistici. E’ la “guerra ai fannulloni” yankee. Li pero’ si accende la speranza di una lotta di classe, qui, assistiamo alla privatizzazione di ogni spazio, a cominciare da quello pubblico. Li la lotta di classe riparte da forme di solidarietà concreta, di visibilità raccolte e raccontante, mediate, rappresentate nei luoghi classici, della politica. Qui l’unico mezzo per far sentire la propria voce “utilizzato da una parte del mondo del lavoro iperframmentato” pare essere oltre che la salita sui tetti, sulle gru, l’apparizione in un reality. Riappropriamoci delle idee e delle passioni politiche. Impegniamoci. Il Pil (che brutta cosa!) sarà anche cresciuto, ma restano sempre un 30% dei giovani senza lavoro e i disoccupati, a gennaio, erano 2 milioni 145 mila (in aumento rispetto a dicembre 2010). Impegniamoci, guardiamo al Wisconsin, eliminiamo queste assurde porte girevoli presenti nel mondo precario della scuola. Investiamo sulla scuola e sui lavoratori della scuola. Eliminiamo l’immagine che ci costringe nel reale a vivere come all’interno di una sala d’aspetto di una stazione ferroviaria. Un treno, quello dell’occupazione, della stabilità (di tutto, anche affettiva) che tarda ad arrivare. Perennemente in ritardo. E nell’attesa edifichiamo la nostra precarietà-precaria-mente, adattandoci a quella situazione. Una sala d’aspetto che stiamo “costruendo”, edificando, anno dopo anno, come la nostra casa, con i nostri amici, cose, ecc. ecc. Basta con questa “neotenia psicologica” su vasta scala. Riprendiamo coscienza, torniamo a lottare per una condizione sociale e di lavoro soddisfacente.

Difendiamo la scuola. Difendiamo l’articolo 33 della Costituzione. Difendiamo tutta la Costituzione. Guardiamo alla lotta di classe in Wisconsin.

 

Una bella giornata. Ora, sciopero generale

La giornata, lentamente, volge ormai al termine. E’ stata una bella giornata. Di lotta e non solo. Di gioia, di incontri, di riaffermazione di identità, di diritti per metalmeccanici, studenti, universitari, lavoratori del pubblico impiego, disoccupati. Soggetti invischiati in una precarietà generalizzata. Soggetti che non vogliono piu’ narrare la propria condizione e lamentarsene. Sono soggetti che hanno voglia di lottare per mutare l’attuale stato di cose, contro chi la crisi l’ha causata davvero. Fin dalle prime luci dell’alba, si poteva facilmente comprendere che qualcosa nell’aria sta cambiando. Bus in continuazione, che scarivano operai con occhi stropicciati; operai assonnati ma felici di esserci, di poter allargare quel 46% di No uscito dalle urne di Mirafiori. Esserci per fare la propria parte, dare la spallata finale a “quei due”. Fine della rassegnazione, voglia di lottare. A Porta Susa, alle nove, i manifestanti erano già in tanti. I ragazzi concentrati intorno allo striscione della Federazione della Sinistra, anche. Alle 10.30 il colpo d’occhio era meraviglioso. Da tanto, troppo tempo, non si vedeva tanta gente, consapevole, coscienziosa, “arrabbiata” ma con tanta volontà di riappropriarsi del proprio destino ad interessarsi del proprio Paese, del proprio posto di lavoro. Studenti, universitari, ricercatori, sommatorie diverse, si, ma con uno stesso paradigma, perchè anche nelle scuole si nascondono tante Mirafiori. Comprimere diritti e salari per competere, con esponenti che plaudono tutto cio’ e poi spendono senza ritegno, rifugiandosi nel “nel mio privato faccio quel che voglio“, privi di un’etica, di una morale. Un pugno nello stomaco a chi continua a percepire uno stipendio da fame. La democrazia, così, lentamente non solo è svuotata, ma, lentamente muore. Opponiamoci. Non penso che il lungo corteo e i soggetti in esso presenti questa mattina possa e possano esseere paragonabile ad un’avanguardia. A mio modo di vedere è molto di piu’. Bisognosa di una sponda politica, questo si. Vera e non “equidistante tra capitale e lavoro”. E’ gente stanca, quella partecpiante al corteo, ma mai doma. “Sono un eroe” suona tutto volume una nota canzone di Capareza. Già. Eroi quei 2326 che hanno provato a dire No per milioni. L’ultima fila del corteo, intanto, si muove lentamente intorno alle undici. Raggiungerà Piazza Castello intorno alle 12.15.

La strada per la democrazia e per i diritti passa da Torino.

Un plauso e un abbraccio a tutte le donne presenti, ai loro slogan e al loro stile, alla loro dignità, al loro essere. Migliori sempre. Lontanissime da quel Palazzo.

La vita reale è un’altra cosa.

E’ stata davvero una bella giornata. Di passione. Colorata. Ora pero’, sciopero generale.

Sono disponibili le fotografie dello sciopero sul sito della Federazione della Sinistra Piemonte, gruppo.

Sciopero: salviamo l’Italia

La pioggia insistente di questi giorni ricorda quella di alcuni anni fa, insistente che cadde alcuni anni orsono sulla nostra città, a Torino, in Piemonte. Erano gli anni 1994 e 2000. Che stagioni “politiche”. Almeno nel 1994 cadde il governo Berlusconi. La pioggia di oggi cade copiosamente. Le foglie, bagnate, marciscono e si stropicciano ulteriormente al nostro passaggio. La corrente del fiume è veloce; trascina con se di tutto: rami, bottiglie di plastica, ogni genere di masserizia, ricordi personali. Osservo oltre la ringhiera che separa la strada dal fiume. Un ombrello, aperto, è rimasto impigliato sui rami di un albero “sdraiato” sulle sponde del fiume. Un ombrello, un paracadute. Come sempre, anche in questo caso, il “paracadute” non è per tutti. Come gli “ammortizzatori sociali”. Mi soffermo a pensare e mi balenano numerose contraddizioni. “Al di là dell’Atlantico”, ricordava un editoriale del giornale subalpino, c’è una società aggressiva, vitale; da noi, una società ripiegata su se stessa, egoista. Al di là dell’Atlantico si comprano titoli del debito a lungo termine, con lo scopo di mantenere bassi i tassi di interesse e avere così corposi vantaggi: aziende che si ingrandiscono e che creano posti di lavoro con capacità di rifinanziare mutui a tassi convenienti, e tanta, tanta disponibilità di spendere per i consumatori. Tanti dollari, tantissimi dollari. Dollari che prenderanno la strada, nuovamente, della speculazione: dollari per comprare azioni di una stessa azienda in modo tale da aumentarne il suo valore. E le bolle si gonfieranno. Eppure quando si studiava economia ci veniva sempre detto che “non si stampa moneta”, si agisce come “carta assorbente” per limitare il circolante. E da noi, popolo di santi e navigatori? Al di qua dell’Atlantico qualcuno si bea che siamo il Paese con piu’ telefonini, (in realtà sarebbero piu’ sim). Lo steso signore si bea affermando che siamo il Paese con una percentuale altissima di proprietari di case. Ma siamo anche il Paese, e non si spiega la contraddizione, con il 40% di precari. Come stanno insieme le due cose? Abbiamo un salva-precari che conferisce posti di lavoro, a chi lo aveva negli anni passati, un incarico che parte solo ora, a novembre e per pochi mesi. Siamo il Paese in cui lo Stato ti legalizza la precarietà per otto, nove, dieci anni e dove le buonuscite per chi ha occupato posti di rilievo in qualche nota banca fanno inorridire mentre ai precari è precluso, magari dalla stessa banca, qualsiasi prestito. Siamo il Paese in cui la bellezza delle relazioni e dell’accoglienza fra generazioni si rafforza perchè la situazione, di noi precari, di noi di questa generazione, è sostentua dalla solidarietà dei genitori, degli anziani, dei saggi, formatisi alla scuola del conflitto di classe che ora si è assopito solo perchè qualcuno lo fa credere un arnese vecchio per gonfiare ulteriormente la propria borsa; la generazione, quella dei saggi, del sapere tramandato del movimento operaio e non dal sapere del grande fratello, di amici o dei tronisti, proprio queI saggi che con le loro lotte e il loro sudore hanno fatto si che i salari potessero incrementare così come accadeva per l’aumento della produttività, senza intaccare i profitti. Lavoratori, quelli, che chiedevano come il pane il sapere, quello vero, quello autentico, frequentando le 150 ore dopo otto ore di fabbrica; quelle 150 ore che hanno insegnato la lettura di una busta paga per “non farsi fregare dal padrone”. Dove è andata a finire la voglia di prendere coscienza? Noi, studiamo, otteniamo una laurea e ben che vada entriamo a far pare di un call-center, o reclutati per qualche mese da una agenzia interinale, o, se va ancora meglio, in qualche profilo basso nell’istruzione, quell’istruzione che ricorda il disastro di Pompei. Conosciamo due o tre lingue, amiamo viaggiare, ma gli Eurostar e tutto il low-cos lo vediamo solo sfrecciare, perchè a noi, non è dato nessun “ombrello”, nessuna protezione. Siamo un problema, noi giovani, ma, “siamo il Paese con il piu’ alto tasso di proprietari di case”, e così, questa frase assume un ritmo ad consesso internazionale” in cui parla il premier. Siamo il Paese in cui una famiglia media di quattro persone spende, in media, 113 euro al mese di spese sanitarie e di questi 37 euro per farmaci. Siamo a Torino, la città in cui si sperimenta l’S.o.s, spesa ortofrutticola solidale, che raccoglie la frutta avanzata nei mercati per darla a chi ne ha bisogno. Siamo il Paese in cui 37 sono i metri quadrati che spetterebbero come spazio vitale a ciascuno di noi, magari a 500 euro al mese. Poco importa se siano 7.800.000 come sostiene l’Istat o 8.370.000 come sostiene la Caritas i poveri, gli invisibili, i nascosti, costretti a “vivere nei 37 metri quadrati” mentre, d’altro canto siamo il Paese in cui il Presidente del consiglio possiede e vive in ville e villette dove potersi rilassare dalle sue fatiche. “Al sindacato spetta negoziare le condizioni di lavoro e la spartizione dei frutti; alla politica far funzionare meglio il sistema produttivo e rendere la torta piu’ grande possibile e che nessuno ne sia escluso”. Questo sosteneva alcuni giorni fa un giuslavorista. Peccato che in trent’anni le disuguaglianze siano aumentate e chi era ricco lo è ancor piu’ e chi era povero lo è ancor piu’. La busta paga è sempre piu’ misera e welfare e fiscalità non hanno piu’ la capacità di essere forze capaci di attenuare le disuguaglianze. E la torta l’han mangiata sempre i soliti noti. E così, neanche la scuola, l’università, riescono a garantire inclusione e ascesa sociale, inoltre, il dodicesimo rapporto annuale “Gli italiani e lo stato” del 2009 (Ilvo Diamanti, consultabile su http://www.demos.it) ci dice quando sia basso il grado di fiducia nelle istituzioni dello stato repubblicano. Cerco di limitare la “mia povertà” con ottime letture: da Dostoevskij a Veronica Tomassini, Lia Tirabeni, Elvira Tonelli, ma nulla sembra cambiare. “Annus Horribilis” direbbe come dice nel suo libro Giorgio Bocca.Ma ogni consesso ha il suo arbitro Moreno che alza il cartellino rosso. Signor Berlusconi, cartellino rosso. Il suo film, venuto davvero male, è terminato. Il tempo delle barzellette è davvero terminato.

Spero in una forte e massiccia partecipazione. Non c’è silenzio che non abbia fine.

Io sciopero

 

Giovedì 15 ottobre. Scuola. Ciao, domani aderisci allo sciopero?, domando ad una collega. “Non so, dipende: se gli amici dell’altra scuola aderiranno, sicuramente”. Rivlgo ad altri l’identica domanda: “Ciao, domani aderite allo sciopero? “No, abbiamo già dato”. Tento ancora. Magari, a volte la fortuna…Ciao, domani, aderisci allo sciopero? “No”, e guardando i suoi allievi, essendo l’insegnante di sostegno, mi risponde: “Impossibile aderire, se pensi a loro”. Eppure, penso: anche gli insegnanti di sostegno, che quotidianamente affrontano difficoltà nel loro lavoro, dovrebbero pensare e formulare una risposta differente. Piu’aderente alle esigenze di chi ha bisogno. Io, invece, aderisco. Rispondo “alla chiamata”. La seconda, di sei ore. Sei piu’ sei, per tenere alta “l’attenzione”. La mia. Non quella di altri. “Le merendine” non saziano mai e non riempiono mai le pance vuote”. Rispondo affermativamente, a questa chiamata, non fosse altro per evidenziare una società “decomposta” che si caratterizza per una regressione culturale ed un attacco alla scuola. Aderisco allo sciopero e non mi importa la contabilità del “quanti eravamo”. Se in piazza eravamo diecimila, o quindicimila o, come sosteneva qualcuno, ventimila. “Esageroma nen”, era solito dire Bobbio. Scendo in piazza perchè decido, scelgo, in maniera adulta, responsabile, perchè questa società, così come è, non mi piace. Scendo in piazza, non per fare compagnia a qualche amico. Manifesto e “continuo a dare” perchè il terzo autunno di crisi economica-finanziaria ha accentuato ulteriormente il fenomeno di cui sono vittima. Insieme a chi ha scelto e deciso di non scioperare. Siamo vittime. Consapevoli e inconsapevoli. Eppure, quel fenomeno,la precarietà, tocca moltissimi. Precarietà: condizione strutturale, esistenziale, generalizzata. L’esasperazione dell’individualismo porta a quelle risposte raccolte, del perchè quei colleghi non hanno manifestato. Anche io osservo i ragazzi diversamente abili, cosa avrebbero bisogno e cosa non hanno; le contraddizioni fra lavoratori di serie a e serie b, all’interno della stessa scuola, strutture mal funzionanti; contratti “stop and go”, eppure mi ripeto sempre che “Il problema degli altri è uguale al mio: sortirne tutti insieme è la politica. Sortirne da soli è l’avarizia”. Ah, come mi manca “quella professoressa”. La vigilia dello sciopero, tre risposte “avare”. Come vive il Cristiano la propria fede? si domandava un don, alcuni giorni fa. “Solo calandosi nella storia e nella sua oscurità con una franchezza di denuncia di tutte le illegalità… a tutti coloro che hanno a cuore le sorti di questa Italia si chiede un gesto di generosità e tenerezza” (don Andrea Gallo, il Manifesto, 10 ottobre 2010). Quelle professoresse di oggi, invece, avrebbero potuto chiamarsi “Tina”: senza alternative. L’alternativa, per loro, “è sortirne da soli, cioè, l’avarizia”.

Scendo in piazza, misurandomi con i numeri di questa città, che spende meno, che perde posti di lavoro. Scendo in piazza, misurandomi con i numeri che indicano disuguaglianze in aumento nel Paese, che tra il 1983 ed il 2005 la percentuale del Pil attribuibile ai profitti d’impresa ha registrato un balzo all’insu’ pari ad otto punti di pil, E i dipendenti Fiat, nel 2009, si accontentavano di 11 mila euro annui. Penso a quelle tre risposte, e a molte altre ancora. A comportamenti di molti che ne “sortiscono soli” e cercano il proprio tornaconto, incapaci di gesti di generosità. La prima cosa che mi viene in mente è urlare un “Kiss the past, goodbye”! E lo penso. Pero’ penso anche ad ex colleghi, ora disoccupati; a Simone, in piazza, perchè preoccupato di rimanere senza borsa di studio. Penso ai senza lavoro, cassintegrati, in mobilità, precari, senza tetto, senza fissi dimora: tutti precipitati nell’emarginazione. Che contraddizioni: internet, i-Pad, i-Pod, google, connessioni continue, esserci, eppure, tutti quelli come se non esistessero. “Ogni città d’Italia, contiene al proprio interno un’altra città, nascosta e quasi invisibile: la città di chi campa di poco o di niente…”. (Veronica Tomassini, Sangue di cane, Laurana Editore). E, rifacendomi al suo stupendo libro, di Veronica, scopro che sono qui, anche per Simone, Domenico, Cosimo, F., D., e tanti, molti altri. “Vi ho tutti stretti nel pugno, siete un soffio. Chiudo il pugno e vi fermo tutti, tutti…” così scrive Veronica, così rispondo a chi mi chiede: “Fai sciopero?”

Una bella giornata di mobilitazione

Grande giornata di mobilitazione e di sciopero. A Torino, già dalle 8. 30 in numerosi convergevano verso Piazza Arbarello. Qui, alcuni del gruppo nato su facebook e blog, “24 ore senza precari” hanno trovato ospitalità presso un altro gurppo “Precari Autoconvocati”. Entrambi “scortati” da due bandiere di Rifondazione Comunista. Grande sostegno e presenza da parte del consigliere regionale uscente, e candidato  per la Federazione della Sinistra Juri Bossuto e il candidato al consiglio regionale della stessa, Luigi Saragnese.

Un corteo clorato e partecipato. Moltissimi gli studenti. A detta dei sindacati, una buona adesione, soprattutto tra i metalmeccanici. Grande entusiasmo quando il corteo ha incontrato un gruppo numeroso di metalmeccanici in Piazza San Carlo. Un solo grido: “l’articolo 18 non si tocca”.

Mentre alcuni facevano ritorno, un altro gruppo, l’ultimo, scandivo il seguente coro: “su, su, su, i prezzi vanno su, governi Berlusconi, non ne vogliamo piu'”.

Secondo alcuni, lo sciopero è un atto politico, ma “anche non fare niente, e , o, non aderire allo sciopero è atto politico”.

Nel pomeriggio, attività politica.

14 settembre 2009 primo giorno di scuola … ma quale scuola?

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Lunedì 14 settembre presidio, in via Pietro Micca a Torino dalle ore 10,00 alle ore 17,00, indetto dalla Flc-Cgil.

Scarica il volantino per PRETENDIAMO UNA SCUOLA CON.

Uniamoci tutti al presidio!!

Il primo settembre, una nuova disoccupazione alle porte, una parola fuori dalla porta: “ormai”

Grazie Barbara. Hai lasciato un commento che è uno “spaccato” di un’Italia con tantissime difficoltà; una società sempre più’ polarizzata: tantissimi che attraversano condizioni economiche critiche e pochissimi, che concentrano grandissime ricchezze nelle loro mani. Ho conosciuto la disperazione in questi giorni. L’ho vista in faccia. La conosco con nome e cognome. L’ho incontrata in un edificio, in una scuola, dove venivano conferiti incarichi, nomine, annuali o di fatto ai lavoratori della scuola. “Una nuova disoccupazione è alle porte,” titolavo un paio di mesi fa un articolo apparso sul blog.

In questa nuova disoccupazione ci sono le tante maestre che potrebbero essere le maestre dei tuoi figli. Ci sono tecnici che hanno dato una mano nelle tesine dei ragazzi maturati soltanto a luglio. Ci sono collaboratori scolastici che con le loro cure amorevoli si sono presi cure dei ragazzi diversamente abili, e di tutti i ragazzi e le ragazze con tanti bisogni, anche soltanto di un ascolto. Nei giorni scorsi l’ho quantificata, quella disoccupazione alle porte. Ho visto gente disperarsi, piangere, svenire. Qualcuno ha scioperato quando era stato indetto lo sciopero. Altri, no, perché egoisticamente non hanno voluto rinunciare ai trenta o quaranta euro. Gente che diceva, tanto “ormai”. Erano molti che dicevano e dicono, “tanto ormai”.

Non è bastato, non è stato sufficiente, il nostro impegno, il nostro sciopero davanti a certa gente che si comporta come “rulli compressori”. “Non hanno pietà di noi”, affermava Barbara in una bellissima mail. Hai ragione, Barbara: non ne hanno. Ma noi, che abbiamo riempito quel treno, quei due treni, diretti a Roma, che abbiamo invaso Piazza Vittorio a Torino, non diremo mai: “ormai”.

Lotteremo, daremo una prospettiva, indicheremo una via, anche a chi ha il morale a terra e “viaggia” con il freno a mano tirato. Indicheremo, denunceremo, ci incateneremo se sarà necessario (come hanno fatto oggi i docenti in Calabria), faremo vertenze, scenderemo ancora in piazza, e diremo che “certe sacche” d’Italia non ci vanno bene.

Così come, a me, non va aver visto nell’insenatura di Torre Lapillo tantissimi stabilimenti balneari che pezzo dopo pezzo sottraggono (pagando il dovuto) spiaggia libera a tantissimi che non hanno risorse sufficienti per “affittare” un ombrellone, una sdraio. La spiaggia è libera, il mare è di tutti. Vedevo negli stabilimenti gente che ballava, che beveva aperitivi; e , viceversa, gente con chilometri e chilometri sulle spalle contendersi un pezzettino di spiaggia. Libera. Non lo accettiamo un mondo così, Barbara; e, la parola “ormai” non fa parte del nostro vocabolario.