Da via Robassomero, un urlo cellophanato alla Circoscrizione 7

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Ispirandomi ad una pagina de La Stampa dedicata ai Quartieri, oggi, prendo a prestito la penna del reporter, anzi, la tastiera, per segnalare a qualche cronista del quotidiano una particolare vicenda (con la speranza che possa essere riportata su quelle pagine). In via Robassomero, Torino, circoscrizione 7  (scritta della via, in alto, a sinistra, sia in marmo che “old style”)  si alza un urlo “cellophanato” lungo i muri che fanno da perimetro alla via. Uno, due, tre, quattro cartelli che presentano la via. A destra come a sinistra.  Al termine della via, un tratto molto breve a dire il vero, perpendicolare a Via Cigna e oltrepassata questa, si scorge una piccola piazza in rifacimento: piazza Sassari. Piazza, nel corso degli anni, andati, alternativa valida ad altri giardini, più nobili, reali, per accaparrarsi attimi di frescura nelle torridi estati torinesi. Una sorta di contrapposizione, ricchi contro poveri nell’ usufruire spazio pubblico. Una benzina e un paio di chioschi “l’hanno abitata per decenni”. Uno dei due chioschi era conosciuto molto bene dai lavoratori (e dalle loro famiglie) delle piccole fabbrichette del territorio, (metalmeccaniche, salottifici e altro ancora) una sorta di anticipo del “distretto” quando la grande realtà manifatturiera di Torino era davvero trainante. Dopo le 22, d’estate, gruppi di lavoratori con famiglie al seguito, si contendevano quei pochi tavoli, antistanti il chioschetto, per una buona e fresca fetta d’anguria. Ma per chi voleva, c’era posto anche per un gelato. Confezionato. Poi, col tempo, del chioschetto, non si è saputo più nulla. A dire il vero, anche delle fabbrichette. Per un po’ erano rimasti solo i tavoli, allargati ad altri centimetri della piazza. E così anche gli steccati in legno che  delimitavano la piazza: andati. Là sopra, i quelle “cornicette da giardino, i bambini di quegli anni trascorrevano  interminabili pomeriggi a “facciamo gli indiani e gli americani”. Uno storico vespasiano, troneggia (e tuttora troneggia) da anni, nei pressi di una fontana, che musica da sempre uno dolce zampillio continuo. “Onomatopea“, ci suggeriva quella fontana  (anche se non è mai stata malata come “La fontana malata” di Palazzeschi) al tempo in cui tutti eravamo dei sig. Rossi, Zoff, Gentile, Cabrini, Tardelli, Graziani, non appena posavamo i libri e “Saper leggere e scrivere” insieme a “Palazzeschi Aldo” diventavano due pali per una porta e interminabili partite si disputavano sul campo da pattinaggio. Molto anni ’80, a dire il vero. Giocheranno ancora a pallone, oggi? Se non su quel campo in rifacimento, almeno nel primo oratorio di don Bosco qui nei pressi?  O si gioca con le app? Terminate le partite, prima del  lavaggio  mani,  polsi, e levato e lavato il  sudore dalla fronte, ci stava sempre un passaggio veloce al vespasiano. Oggi, passati i dieci del nuovo millennio, il cartello, “incartato” e “scartato” ricoperto da “un ercole” stile nuovi lavori, cosa starà suggerendo? Qualche monito  ai cani o….ai padroni dei cani? I cani non hanno nessuna colpa…..non consideriamole, le colpe (molto Bajani). Forse le palette pesano più delle colpe. E se facessero dei mini vespasiani? O magari, molto più semplicemente…un invito solo  e soltanto a quei proprietari che si comportano in maniera incivile e maleducata di andare letteralmente a c….re.

Contattato da alcuni residente di quella zona, rendo noto la scarsa illuminazione e la presenza di altri cani preoccupati che, muso a terra, spesso si trovano faccia a faccia, meglio, muso a muso, con altri escrementi.

San Pietro in Vincoli come Pere Lachaise

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DSC00055L’orologio ha battuto la sua ora. Per sette volte il suono della campana è stato fedele compagno di viaggio, nello scandire tempo e ritmi. Di lavoro nel lavoro. E nei viaggi, spesso, si è costretti a chiacchierare e ascoltare con chi non se ne avrebbe voglia. Un po’ come capita a taluni quando il lavoro… E spesso alcune attività non sono e non sono mai state proprio ottimi compagni di viaggio.  Spesso capita che durante un viaggio, pur non conoscendone  i compagni, forzati, se ne condivide almeno una cosa: la meta finale. Ci si sopporta. Si pena. Si condivide. Si fantastica. Poi, la meta finale. Un “mondo nuovo”. Nel viaggio capita che si parla, oltre il più e meno. Li sopporti meglio, anche se quei compagni, dicono di tifare  Atalanta, e la domenica, finite le vacanze, saranno allo stadio comunale, biglietto alla mano per vedere Juventus-Atalanta. Li sopporti. Anche se non tifi Atalanta e non tifi Juventus. E magari del calcio non ti importa più nulla. Sopporti, loro, le loro compagne,  addobbate in twin-set  e cappotti neri, lustrate come fossero già pronte per il Capodanno, appena arrivate per festeggiare sugli Champs Eliysees. Bottiglia alla mano. Invece, il viaggio, è ancora lungo su quel “Napoli express”. Il confine, la neve, la notte. La fatica si fa sentire.  Ti entra dentro, la porti addosso. Ma poi, la meta. Come l’uscita. Dal lavoro. Questione antica, nuova, modificata. Lavoro assente, alienato. Lavoro che ingessa. Perso e da ritrovare. Lavoro di un tempo, faticoso certo, ma con momenti belli, di festa. Come quando comprare un paio di scarpe diventava una festa, e il giorno di festa si espandeva e generava festa quando la domenica eri orgoglioso di calzare quelle scarpe. E un po’, qui intorno, alcuni “scheletri” oggi ci indicano fabbrichette di un tempo. Sale igieniche appena terminato il lavoro e armadietti dove riporre tute blu. Apprendisti con contratto alla mano, accompagnati da qualcuno che sapesse difendere le ragioni degli ultimi. Contro il padrone. Operai e famiglie felici di rivedersi, ricongiungersi dopo una giornata lavorativa, per un gelato, da consumarsi in piazza. L’operaio Mario, che aveva lasciato la figlia Marina,  la sua frangetta, così bella nel suo dolce dormire nel lettone con la mamma. Marina, che non va ancora a scuola ma che sicuramente è brava e diventerà bravissima col caldo abbraccio del papà. Mario, che pensa e ripensa a Giovanni, il suo “sindacalista” quando ancora non ne conosceva l’esistenza. Latte caldo e miele, le notizie alla radio. Tram che sferragliano, come il dieci, il dodici. Tempi duri.  Risvegli. Dopo la suonata della settima campana, la riappropriazione dello spazio, del tempo, del pensiero, del sogno. Come il primo battito, anche questa “settima battuta” di campane  da istruire” si  ripropone l’identico scenario del mattino. Torino un po’ come Parigi. Il fiume, in riduzione anche questo, le nebbie, un caffè, corto, da poco sorseggiato, anche questo, in riduzione…ma la metro è nei ricordi.  Come il Trocadero, Bouburg, la Tour Eiffel. Il vento che smuove i capelli. Il freddo che gela le dita. Un cane appostato, un grigio. Da queste parti, è sempre stata un’ottima compagnia, discreta. Un fedele compagno, perché è nelle difficoltà che un amico si fa presente. A nostra insaputa.  In “lontananza” altri bambini che giocano alla lippa. Un ragazzo, che potrebbe essere un valido apprendista intona e fischietta una canzoncina: “Now Main street’s whitewashed Windows and vacant stores, Seems like there ain’t nobody wants to come down here no more” (Bruce Springsteen, My hometown)… I cancelli della scuola e del lavoro, oggi, per lui sono chiusi. Nessuno lo accompagnerà e aiuterà a firmare un contratto. Il lavoro, semplicemente, manca. Per ora. Sa solo fischiare. E quindi, si diletta a fischiare. In attesa.  Così di moda, gioco e fischio, da queste parti, su queste strade, su questa terra, sempre nuova, oggi come ieri, quando il lavoro, almeno un po’, c’era. Terra santa, sociale. Terra di promesse e di riscatti. Passion, lives here. Again.