Private nostalgie

Torino, Piazza Statuto riflessa. Gennaio 2015. Foto, Romano BorrelliA guardarla da qua, questa piccolissima fetta di Torino riflessa è impalpabile. Non la prendi per quanto tu possa desiderarla. Certe telefonate sono dolci, lunghe, interminabili e anche quando terminano vorresti non fossero terminate. Mai. Nonostante. Si inflazionano i complimenti, le scuse e…provi a raccontare e porgere questo pezzo di Torino a chi puo’ solo riceverla dalle tue parole. E allora la racconti, come meglio puoi, insieme ai tuoi sentimenti, alle tue parole, che sembrano migliori, smussate da ogni angolo,  solo perché le racconti a lei. La dipingi su una tavolozza dai colori accesi, un po’ come chi la descrive, li vivi, ravvivi, la vivi e la ravvivi e la fai vivere ed esplodere, dal desiderio di vederla nel porgerla dall’altro capo del telefono…E ha inizio così…Da un capo all’altro, un filo che relaziona e provi a relazionarti. La porti in dote, dall’altra parte del telefono, perché il cellulare stava per cambiare compagnia, gestore, operatore….Torino sarebbe stata il treno, un treno, una promessa, che brucia. Forse impossibile da mantenere, o difficile da attuare, ma non impossibile certamente. E bella. Bella e impossibile. Inafferrabile un po’ come una parte che la osserva, dopo una lunga telefonata in cui c’era di tutto un po’. C’era una volta, nel telefono, lei. Poi è entrata in un messaggio e non l’ho più…”risentita”. Una sommatoria di interferenze hanno sciupato la comunicazione che poi era la, comunicazione. E ogni volta che guardi la cabina, la pensi e la ripensi. E vorresti sentirla. Come al tempo del miele. Il tempo delle mele. Tu e lei. Le cuffie. Il mondo fuori. E allora quei pochi centimetri di porta gommata della cabina li spingi appena appena. Dentro tu, lo zaino fuori. Entri e fai come quando eri bambino. Tutti intorno ti mettevano tra le mani un telefono, di plastica, e dicevano: “parla, parla, saluta la nonna”. E tu, prendevi la cornetta e cominciavi a parlare e dicevi solo e semplicemente la verità, anche se dall’altra parte non c’era nesuno: “ti voglio tanto  bene. Vieni”.

Ma, lo spazio vorrei cederlo ad una lettrice del blog che ha inviato la sua lettera. Quindi spazio e parola ora alla lettrice.

Torino, interno cabina telefonica. Foto, Borrelli RomanoI ricordi mi vedono in una cabina telefonica  sulla riva del Po, vicino alla Gran Madre.
La telefonata quotidiana (di solito dopo cena) al “primo amore” mi metteva in uno stato di agitazione fin dalla mattinata Immancabilmente la cabina era già occupata da qualcun altro…avrei chiamato in ritardo. Aspettavo il mio turno con nervosismo facendo tintinnare i gettoni da una mano all’altra, con la speranza che la persona all’interno della cabina percepisse l’urgenza della mia telefonata. Quando poi finalmente riuscivo a mettermi in contatto con M., ecco che si presentava un altro motivo di inquietudine. I gettoni avrebbero potuto terminare prima delle parole. Quante parole dette lontano da orecchie indiscrete.
A casa non si poteva parlare liberamente, soprattutto era materialmente impossibile. Il telefono con il lucchetto, messo dalla nonna (a detta sua) per risparmiare sulla bolletta e non per evitare chiamate ai ragazzi, ti impediva ogni accesso.
Strano, però, il ricordo che ho di quelle telefonate. Era come se una volta entrata in quella cabina il resto dell’esistenza fosse sospesa, non contava più nulla.
Non ho nostalgia per quelle telefonate se non la nostalgia stessa per quella cabina che per me è stata la “custode dei primi segreti del cuore”.
E’ davvero un peccato, al di là, delle private nostalgie, che oggi le poche cabine telefoniche rimaste siano nel più totale degrado, alla mercé di persone incivili. Perché non ripristinarle in modo adeguato, portarle a nuova vita, conferendogli come nei paesi oltremanica, una nuova dignità?
Ma… forse la risposta l’ho già data: è una questione di civiltà. (E.D.).

Rispondi
Inoltra