La sedia della maturità è molto più di un oggetto. In quella mezz’ora, di seduta, sulla sedia, tutto ruota nella testa, le sue rotelle, (ma anche senza rotelle, che va bene ugualmente) in quel preciso momento, con tutta l’ ansia accumulata, poi, a radiografarla e’ come in un flipper, che stelle ce ne sono a milioni; ruota il candidato, alla Mose’ in san Pietro in Vinvoli, con la sua torsione, che sembra prendete la via di fuga, verso sei visi, che scrutano, domandano, ascoltano, pesano, la solitudine di quell’istante. Passano velocemente in mezz’ora cinque anni, due guerre mondiali, morti, vinti, vincitori, Foscolo, Ungaretti, Montale, Pavese, i contratti, le societa’, atti e contratti, Cassola e la fabbrica e la sua paga del sabato, l’iscrizione dopo la terza media, le gite, le vacanze, di Natale, estive,
di Pasqua, gli amori, soprattutto quelli non corrisposti, le delusioni, quelli che non si sa mai… gli intervalli, i libri, gli appunti; poi termina tutto con la domanda del Presidente: “che farai da domani? Progetti? Lavoro o Università? ” La seduta è tolta, e tutto si scioglie in un men che non si dica: in una stretta di mano.. rimettere la sedia in ordine, al centro della classe, chiudere la porta, che dentro si discute il voto e… e avanti il prossimo. Sembra ieri quando al posto del candidato A. e la sua tesina sul lavoro, c’ero io e la mia solitudine e la giacca e la cravatta troppo stretta che non vedevo l’ora di toglierla e la sedia messa in ordine per A. Ma non era ieri. Era oggi, la maturita’ di A., C, A., S…
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29 aprile
E si. Pare proprio abbia perso le parole, in realtà, capita, a volte, a tutti, di prendersi del tempo, uno stacco, schiacciati e sormontati da impegni e accadimenti vari. In questo frangente, fatto di silenzi, di ascolto e letture di ogni tipo, ho continuato l’approfondimento di Cassola, con il libro, “Una relazione””. I personaggi femminili dell’autore, li trovo dolci, mielosi, struggenti, affascinanti. Bella questa Giovanna, “chiacchierata”, ma dotata di grande sentimento, anche davanti a Mario, uomo oramai sposato, che forse non meriterebbe quel sentimento, di Giovanna. Una storia d’amore, una relazione, cercata da Mario per “rivivere” il suo passato. Una storia nata nel 1935, all’epoca della guerra d’Etiopia e terminata nel 1945 tra Livorno, Follonica, Cecina. Luogo d’azione la Toscana e il treno. Fondamentale, l’ambientazione in treno, sia agli inizi sia al termine del racconto. Quando Giovanna, oramai matura e non più sola porrà termine alla…”relazione”.
Il secondo libro letto è stato “Guerriglia nei Castelli Romani”, di Pino Levi Cavaglione (Il Melangolo), un diario partigiano iniziato nel settembre del1943.
Data la situazione politica attuale avevo poi voglia di riprendere in mano “L’Orologio” di Carlo Levi, in particolar modo le pagine sulla distinzione tra “Luigini e Contadini”. E poi ancora, tanta Roma, i suoi palazzi, ministeri, Chiese, ministeriali e misteri, colori del cielo come fossero quadri grazie alle parole, il tutto alla vigilia della fine dell’esperienza del governo Parri (fine del 1945).
Tesina e prova finale
Dopo essermi lasciato alle spalle km di strada ferrata e mare (e che mare) , sole, vento, scusate “mare, sule, jentu” eccomi qui dove ci eravamo lasciati. A scuola. Edificio, rampe di scala, cattedra, prima dell’aula 23. Aula. Cattedra, banchi, sedia. Presidente, commissari, interni, esterni, pubblico e io mescolato in questo. Tho’ chi si rivede: “la sedia della maturita’”. “Gli esami orali sono viciiiiniii e tu sei molto lontana dalla mia stanza…”, bando alle canzoni in tutti i sensi eccomi qui ad accompagnare, interrogare, ascoltare, gioire, soffrire, ridere, commentare tesine e vedere questo ultimissimo viaggio d’amore nella scuola, tra spine, petali, rose. Prima. Mazzo no, onestamente. Dopo. Per nessuno. Tutto e’ andato in maniera serena. “Il volontariato e le leggi che lo regolano: un caso specifico, quello del Cottolengo”; “La gravidanza” e “Animali pelosi”. Quest’ultimo avrebbe meritato uno spazio sulla rubrica de La Stampa dedicata a cani e gatti. Una bella carellata storica sul tema. Belle, ricche di studio e fantasia. E allora domandiamo. Nel mezzo, Calvino, Montale, D’Annunzio, socialisti, interventisti, pacifisti, prima e seconda guerra mondiale, guerra di posizione, trincea, 1943, 1945, i russi, bolscevichi, il socialismo, il comunismo, il contratto, nullo, annullabile, imprenditore, impresa, ditta, azienda, insegna, funzioni, Freud, e molta emozione dopo, dopo averle spiegate, ovviamente.. “Signorina, cosa pensa di voler fare da domani?” Tante risposte: scienze della formazione, ostetricia, psicologia, volontariato. E’ andata. Bravissime. Avete scritto una bellissima pagina di storia indimenticabile.Qualcuno la sognera’ ancora, ma non fa nulla. Servira’ a restare sempre giovani. Buone vacanze. Ah: “goodnight”.
Diego Novelli e il libro “Le bombe di cartapesta”
Continuando la conversazione con l’ex-Sindaco di Torino, Diego Novelli gli pongo alcune domande sul perché del libro “Le bombe di cartapesta”.
“Il libro è stato scritto perché mi era stato richiesto dalla Casa Editrice. Lo scopo era quello di pubblicare qualcosa, come già avvenuto per altri autori, tipo racconti inerenti la loro vita, il lavoro, l’ infanzia”.
A Diego Novelli fu chiesto di raccontare la sua storia di Sindaco. “Risposi si con un certo entusiasmo.”
” L’ idea di rimettermi alla macchina per scrivere mi entusiasmava. Unico neo, il tempo. L’occasione mi fu fornita da un viaggio di lavoro negli Stati Uniti. Allora ero Presidente della Federazione mondiale dei Sindaci delle città unite con sede a Parigi, un incarico della durata di tre anni. Ero stato invitato ad un convegno sulla pace nel mondo, alle Nazioni Unite. Salgo sull’aereo per recarmi a New York dicendomi: perché non usare questo lungo viaggio per scrivere il libo? E così è stato. Una telefonata da parte dell’editore proprio alla vigilia del volo mi aveva creato un certo imbarazzo… Ed eccomi qui a bordo. Un libro scritto quasi in diretta su un DC dell’Italia volo numero 615 alla volta degli Stati Uniti. Sono le ore 12. 30 di un giorno qualsiasi del mese di giugno. L’aereo sta rollando sulla pista quando la nostra hostess ci comunica che il nostro volo durerà 7 ore e 50 minuti dal decollo. Ci provo. Mi ci butto. Non leggerò giornali o riviste non mi farò distrarre da nessuno perché voglio cercare di mantenere l’impegno assunto. Pronti via…Sono nato il 22 maggio…e inizia la storia della mia famiglia, da bambino, di mio padre, Direttore Generale di una grande azienda. …Io non ero ancora nato, quando sotto il fascismo uno dei provvedimenti presi dal regime fu quello delle misure contro le imprese straniere che operavano sul nostro territorio. Quella di mio padre era una azienda belga che fu, in seguito a quelle disposizioni, costretta a chiudere i battenti. Trovare lavoro a Torino per uno che sdegnosamente aveva rifiutato la tessera del partito fascista era praticamente impossibile. Così, dall’agiatezza economica che aveva conosciuto la mia famiglia siamo caduti in indigenza se non proprio in miseria. E lì, a completare il quadro, sono arrivato io. L’ultimo di tre già nati, ospite tardivo e inopportuno, sono nato io, Diego. La passione di mio padre per il melodramma spiega i nomi dei quattro suoi figli: Walter, Edgardo, Alfio, Diego”.
E così Diego snocciola date e ricordi. La scuola, la Cesare Battisti, la maestra, i compagni di scuola, la guerra. Il dieci giugno del 1940. La povertà, la radio, il discorso del duce in un bar di zona San Paolo…Riannoda il filo e riparte…” e poi quando siamo arrivati mio padre viene a sapere che mio fratello, il primo si era arruolato volontario per andare in guerra. Un colpo duro, per mio padre, che si era sentito tradito. Il regime imbottigliava la testa. Poi, mio fratello, ha fatto la guerra ma dopo l’8 settembre ha fatto il partigiano con l’altro fratello. In queste poche pagine racconto quando la sera dell’8 dicembre del 1942 siamo stati colpiti nel rifugio dove eravamo, da una bomba, e fummo sepolti da una casa. Io, piccolino e magrolino, fui il primo a uscire da quel mucchio di macerie, tra morti e feriti”.
Diego poi passa a raccontare lo sfollamento e la guerra della Resistenza. “Non avevo più voglia di vedere altri morti prodotti dallle guerre e anche per questo motivo mi trovavo su quell’ aereo diretto negli Stati Uniti. Andai negli Stati Uniti dal Segretario Generale dell’Onu, per consegnargli un appello scritto con il sindaco di Madrid a nome della Federazione Mondiale delle città unite”.
A quell’ appello risposero oltre tremila città di 90 Stati dei cinque continenti… “Nonostante le le tante cose che vorrei dire, la radio di bordo ci dice che stiamo per arrivare”…ma della professione di Sindaco dissi ben poco…tranne che il mestiere di Sindaco, Diego non l’ha scelto.
Diego Novelli. Un don Bosco laico?
Nella giornata di oggi, 31 gennaio, dedicata ad uno dei Santi Sociali del territorio della nostra città, don Bosco, sentivo il desiderio di riascoltare una chiacchierata avuta alcuni giorni fa con l’ex Sindaco della nostra città, Diego Novelli. Sovente, qui, sul blog, è stato menzionato. Un grande sindaco. Per tantissimi, il Sindaco. La sua buona politica e il suo ricordo al servizio della città restano indelebili. Mi faccio raccontare qualcosa sul libro, “Le bombe di cartapesta” precedentemente nominato, qui, sul blog, sugli spezzoni e la guerra a Torino. Guerra ricordata da Natale Gherardi. Ma, nella giornata di oggi, resterò al suo rapporto con i Salesiani.Da ragazzo e da Sindaco. Parliamo del più, del meno, di libri, molti libri, tantissimi al punto da avere l’idea di essere l’interno di una biblioteca durante lahiacchierata . Parliamo di lavoro, di lavori, di politica, comunicazione, di legge elettorale, di oggi, e legge truffa, di ieri. E di Presidente. Si interessa ai miei studi, al lavoro……..Guardiamo insieme il blog. E’ attivo. Curioso. Scrive e legge. I libri sono disposti ordinatamente in ogni posto libero (ma in realta’ i libri si mangiano tutti i centimetri disponibili”). Resta il Sindaco. Vedia one un po’ sinteticcmente un aspetto della storia.
Oratorio di Borgo San Paolo dei Salesiani. La seconda casa.
“Mio padre, aveva rifiutato, ( perché obbligatoria per i dipendenti pubblici e per i dirigenti di prima classe delle aziende private) l’iscrizione al partito nazionale fascista e rifiutandola era stato “catalogato” come un “sovversivo”. Cioè, ostile al regime, quindi sempre soggetto ad essere vigilato e condizionato nelle sue libertà fondamentali e in ogni movimento in particolar modo in coincidenza di alcuni eventi del fascismo sul territorio della nostra citta’. “Quando venivano giù da Roma i cosiddetti “pezzi grossi” del regime, la polizia locale veniva a prenderlo. Lo conducevano al commissariato, per un “soggiorno” forzato di almeno un paio di giorni. Non poteva frequentare locali pubblici, andare al bar, o altri posti aperti al pubblico. In molti non sanno che proprio nei bar vi era l’insegna con su scritto “qui è vietato parlare di politica”.
Le alternative, quindi, per chi era considerato un “sovversivo” dal fascismo erano piuttosto limitate. Mancando queste, non restava che l’ oratorio.
Amante del teatro, il papà di Novelli, aveva messo su una filodrammatica. Aveva una passione viscerale per la recita. E noi, lo seguivamo. La nostra seconda casa, ovviamente, era diventata l’oratorio dei Salesiani. L’Oratorio Salesiano San Paolo. Diego elenca tutta la struttura di appartenenza prevista, in base all’età dei ragazzini e il relativo tesseramento.
” Prima ero Luigino, poi Domenico Savio e ancora negli effettivi”. E tutto questo, subito dopo la guerra. Appena ritornati al San Paolo.
Insomma l’organizzazione dell’Oratorio era ben strutturata.
Diego li racconta con lucidità e anche con affetto, la struttura e quel periodo. E con affetto ricorda gli amici e alcuni Salesiani che, complice la sua buona stoffa, qualità, intelligenza, e un pizzico di destino, hanno contribuito a disegnare il suo futuro.
“ Durante quel periodo, grazie ad un salesiano, don Baracco, riuscì a trovare un lavoro. Serio e piacevole. Mentre giocavo proprio nel cortile dell’Oratorio, quel don mi chiamò dicendomi: “Diego, te la senti di andare in centro, di andare in Torino”, così si diceva allora, “dall’ Ebreo, ( così si chiamava il negozio di libri che c’era in centro sotto la galleria Subalpina), in piazza Castello”. In uno dei magazzini dell’Oratorio San Paolo vi erano infatti accatastati numerosi libri frutto di varie donazioni. Fu così che, insieme ad altri ragazzi partimmo “verso Torino” con due borsoni pieni di libri.
Negozio chiuso e destino sempre aperto. Per una porta chiusa, un’altra se ne aperta. Siamo nel 1945 e tra le macerie di via Po, la Libreria Gissi, contrariamente all’altra, è aperta e prova a rilanciare un po’ di normalità tra la cultura. In vetrina, era esposta la scritta: “compriamo libri usati”. Soggetti della trattativa sui libri da vendere, il Ragionier Momigliano e Diego. Quest’ultimo si rivela subito “un’occasione”da non lasciarsi scappare. Il Ragionier Momigliano vede lungo sulle abilità di questo oratoriano, e non soltanto compra i libri ma offre un lavoro estivo presso la libreria per la durata degli studi.
Diego Novelli diventò così un lavoratore-studente. Il ragioniere offrì inoltre l’iscrizione ad una scuola serale privata. Fu così che, un occhio di giorno ai libri da vendere e due su quelli da studiare, di sera, Diego cominciò a bazzicare gli ambienti della politica, del sindacato e frequentando la domenica, l’Oratorio.
1948: Diego Novelli e l’Oratorio dei Salesiani.
Nel 1948, tre anni dopo la fine della guerra, in vista della tornata elettorale, qualcosa nei rapporti tra il lavoratore-studente e l’Oratorio, muta.
La passione Politica e l’impegno.
“ Con due fratelli partigiani, mio padre di orientamenti a sinistra, mio nonno materno morto per le botte dei fascisti nel 1922 nel circolo socialista della Barriera di Milano, non potevo che collocarmi a sinistra. Quindi ho fatto campagna elettorale per il Fronte Popolare che era il Fronte unito della Sinistra. Una domenica mattina, dopo la messa sociale, quella delle 8.30, nel cortile dell’Oratorio, notiamo alcuni che distribuiscono volantini per la Democrazia Cristiana e più specificatamente per l’onorevole Gioachino Quarello. Noi eravamo tre o quattro del Fronte Popolare. In un attimo, dopo esserci guardati, io ed altri compagni ci siamo detti: “domenica prossima porteremo anche noi dei volantini del Fronte Popolare. Qui. In oratorio.” E così fecero.
“Non dico cosa successe. In seguito a quel fatto fummo espulsi dall’Oratorio. Il Direttore dell’Oratorio salì sul pulpito e da lì ci indicò come dei ragazzi traviati. Mia madre ci restò molto male. Affranta e distrutta per il figlio espulso dall’Oratorio. Dei Salesiani. Una delusione, per lei. Per tutta la durata della campagna elettorale, una domenica dopo l’altra, abbiamo fatto il nostro lavoro di militanza politica. Il volantinaggio davanti l’Oratorio e la Chiesa”. Quel fatto però ha lentamente allontanato Diego dal mondo Salesiano, dall’Oratorio, dalla messa sociale, dal campo di calcio. Questo almeno per un po’ di anni.
Nel 1949 Diego si iscrisse alla Federazione Giovanile Comunista.
Diego e il lavoro: il giornalismo di sinistra
“ Nel 1950 scrivevo per qualche giornale sportivo e mi han chiesto se volevo andare a lavorare a L’Unità come archivista e apprendista cronista di cronaca nera. Nel 1950 ho cominciato a lavorare a l’Unità: cronaca nera, sindacale, giudiziaria, politica e dal 1955 i resoconti del Consiglio Comunale, diventando una specie di “oggetto” di Palazzo Civico. Ero tutti i giorni in Comune. Nel 1960 il partito comunista, dato che il mio domicilio era era diventato, per via del lavoro, il Comune, mi chiese di candidarmi al Consiglio Comunale. Riuscì ad essere eletto nel 1960. Nel 1966 diventai capo gruppo e nel 1975 per la terza volta mi chiesero di ricandidarmi e di fare il capolista. Io però, avevo una gran voglia di tornare a fare il mio mestiere: il giornalista.
Nel 1975 ci fu l’avanzata delle Sinistre. Cosa successe a Torino, al Pci e a Diego?
Successe che noi della sinistra ci trovammo con un seggio di maggioranza (eravamo insieme con i socialisti al Comune di Torino). La domanda a quel punto era: “Chi diventa Sindaco?”
Diego Novelli, era il capolista, e il candidato che ha ottenuto più voti. Lineare e obbligata la scelta.
Dal 1975 al 1985, Sindaco per due tornate amministrative.” Prima avevamo una giunta, di sinistra, con un voto di maggioranza: avevamo infatti 41 consiglieri su 80. Sai che fatica! Nella seconda giunta siamo andati avanti. Noi comunisti abbiamo preso 33 seggi (da 30) e i socialisti da 10 a 12, quindi un margine più largo.
Fu così che Diego si ritrovò Sindaco della nostra città per due mandati e nel frattempo, nella sua veste istituzionale ricompose i rapporti con i Salesiani conquistandosi, per via delle estate ragazzi avviate dal Comune di Torino l’appellativo del don Bosco laico.
(un ringraziamento a Michele Curto e Juri Bossuto, autore di “Un gatto nel cuore di Torino”, che si sono resi disponibili nel rendere fattibile questo incontro).
Gherardi Natale

Cerchero’ di essere sintetico. La storia che ho approfondito magari prenderà la strada della carta.
La storia.
Gherardi Natale è nato a Torino il 24 dicembre 1921. Quindi, un uomo di 93 anni. Nel suo nome è inscritta una storia. Di Avvento e dopo Avvento. La data di nascita ne dice il perché. (Natale sposerà Giulia il 26 dicembre del 1945). Ci incontriamo, nel suo appartamento. Il tempo di un caffè e diviene un “fiume” in piena. Di parole. Di ricordi. La sua attività, “cartonificio” così si diceva un tempo era situata là dove era ubicata una “fabbrica” (boita) di automobili, la Temporini, (Natale ha una memoria di ferro, però, mi chiede di verificare, magari per una vocale di troppo, o in meno).
Quante auto sarebbero “uscite” da via Ravenna, via e luogo, al numero uno, di quei locali in cui la famiglia Gherardi, in seguito (la “boita” Temporini in via Ravenna) hanno costruito un pezzo di storia torinese e in special modo di Valdocco?
“Probabilmente, da quei locali, poi nostri, uscì una automobile soltanto. Difatti, mio padre rilevo’ i locali proprio perché i vecchi affittuari subirono uno sfratto per via del rumore che la fabbrichetta, con i suoi battilastrsa, “produceva” disturbandone il vicinato. Era il luglio del 1931″.
Così Gherardi risponde alla mia domanda, di oggi e di ieri, davanti al Lingotto.
Le origini e le origini qui a Valdocco.
Natale mi racconta le origini dei suoi genitori, emiliani. Di come era Torino, nel quartiere, di quando in via San Pietro in Vincoli, la presenza di due torrenti, vicino la Dora ne “rigavano” il terreno e loro due, si che contribuivano a creare la storia, delle persone, del loro lavoro. I mulini, le officine. E mentre rigavano il terreno il territorio, con il lavoro dell’uomo, si modificava.
“C’era il passaggio pedonale, una passerella piccola, in via Salerno e il ponte in via Cigna, dove c’era la conceria Durio. I Durio, che signori. Avevano una carrozza con due cavalli! Avevano contribuito a costruire il Fortino con il gioco da bocce, il gioco con la palla” e lì dove ora esiste la torre c’era un grande birreria poi divenuto locale cinematografico.
(Mi ricorda che qualcuno gli ha indicato che del Fortino ne ho scritto sul blog). Mi ricorda il rapporto della città con l’acqua e l’economia di questo quartiere, zona. Ricorda un altro rio, in via San Donato, che “andava a finire” sotto piazza Statuto.
Mi ricorda le sue scuole, alla Boncompagni, i suoi trascorsi all’oratorio Valdocco, tra i Salesiani, il premio, in qualità di “ragazzo più buono, di Valdocco, nel 1938” (divenendo Cooperatore Salesiano proprio in quell’anno), fatto testimoniato da una copia del Vangelo datogli in dono dal Rettor Maggiore, quarto successore di don Bosco, don Ricaldone, in occasione del giovedì Santo e della rispettiva funzione avvenuta nella Basilica di Maria Ausiliatrice.
Scuola e militare.
Dopo la quinta elementare, c’era l’avviamento o altre scuole, con corso sussidiario. Natale frequentò l’avviamento e intanto dava una mano, nello scatolificio di famiglia.
Gli anni passano velocemente. Natale diviene grande e si ritrova soldato nella “Lancieri di Milano Civitavecchia”.
“Io avevo fatto il pre militare in cavalleria ma la destinazione sarebbe stata Lanceri di Milano Civitavecchia. In sede di commissione ho avuto la forza, e non so come (anche se, in cuor mio, attribuisco ciò a…” e guarda in cielo mentre afferma questo) di domandare, “guardate, io ho fatto il pre militare al Nizza Cavalleria, se per caso vi è la possibilità di…”.
La commissione guarda e scopre che c’era solo più un posto. “Nizza Cavalleria, primo squadrone”. Natale venne accontentato, difatti, Nizza cavalleria era a Torino.
“Natale, fu graziato, durante il soldato, ancora un paio di volte. Una prima, grazie alla portinaia della sua abitazione, che ne conosceva il Colonnello e una buona “parolina” non venne dimenticata nel momento più…”idoneo”. Una seconda volta, “dopo l’8 settembre del 1943, e l’armistizio”.
“Il nove settembre, i tedeschi cambiarono idea rispetto a noi militari, portandoci via, tutti. Puoi immaginare dove.” E qui Natale ci introduce nel racconto della “grazia” ulteriore.
“Durante il tragitto, l’11 settembre del 1943, da Corso Stupinigi (così si chiamava il corso ove era ubicata la caserma) a Porta Nuova (la stazione, dove il treno ci avrebbe condotto in Germania), c’era il magazzino della Cooperativa Torinese. Alcuni operai, lì nei pressi ci incitarono a scappare e così fecero alcuni soldati. I soldati tedeschi cominciarono a sparare e cavalli senza cavalieri si ritrovarono allo sbando più totale. Anche il mio, fece le bizze fino a quando mi scaraventò a terra e restandone schiacciato dal fuggi-fuggi di soldati e cavalli. Una ragazza che non avevo mai visto e conosciuta mi sollevò e mi prestò le prime cure all’interno di un portone. Lì aspettò, aspettammo, che passasse la buriana e poi insieme ad altri mi portarono in ospedale. Fui spogliato dei vestiti da soldato e lì rimasi fino a guarigione. Per una novantina di giorni, al Mauriziano. Poi, fra convalescenze, casa, riposi vari, la mia esperienza si concluse praticamente li. Da quell’esperienza, qualcosa di buono ne uscì, almeno in quel frangente: i cavalli morti divennero ben presto cibo per molti, in un tempo dove la fame era sovrana.”
“Lì, capii che a salvarmi la vita era stato probabilmente un angelo.”
L’azienda e il territorio.
L’azienda Gherardi, intorno al 37-38 aveva un 17 -18 ragazze. Le scatole che ne uscivano dalla fabbrica erano di tutti i tipi e per molte aziende.
Per chi lavoravate?
“C’erano diverse industrie: maglie, calze, dolciarie. L’industria Giordano, il magazzino in via San Domenico e il negozio in via Garibaldi, caramelle Gioberge, fabbrica di caramelle che ora non esiste più. E c’era anche De Coster, “Fabbrica cioccolato, caramelle, pastigliaggi, confetti” che era una fabbrica situata da queste parti, poco distante da via Maria Ausiliatrice. Ah, quanto sei dolce, Torino. C’era anche una grande fabbrica di wafer, gallette “mignin e mignon”che con gli anni poi, ma siamo negli anni a cavallo tra gli anni ’70 e ’80 ha via via chiuso i battenti (mignin e mignon: gallette le prime e wafer i secondi, probabilmente 4 soldo il costo). All’angolo di via Cigna, era situato un calzaturificio, bruciato anch’esso, in seguito agli “spezzoni”.
E qui si apre un capitolo all’interno di un altro capitolo. Dalla storia alla Storia.
“Doveva essere fine 1942, con quei brutti bombardamenti su Torino”. In questo momento si riaprono pagine di storia, di libri, gli anni dell’Università, l’Istoreto, ripercorrole pagine di Primo Levi, “segni sul marciapiede” e le “lastre che conservano le tracce delle incursioni aeree” (spezzoni incendiari) e ancora, Diego Novelli (“Le bombe di cartapesta“). Dove ho parcheggiato la macchina, “al fondo di via Ravenna, a destra, prima di arrivare in via Salerno, esiste “un’impronta”, di quegli spezzoni”. Uscito da Natale, corro a verificare.
, così mi ha raccontato Natale e pur credendogli cerco quel luogo, così “calpestato” da me chissà quante volte.
Continua il suo racconto. “Qui bruciava molto, in seguito alla guerra. Spezzoni al fosforo, con una base di ghisa, pesante ; avevano un innesto, posato sopra un tubo, 60 o 70 centimetri, pieno di quel materiale incendiario che quando cadeva giù, con il contatto, generava fuoco e incendiava il circostante. Ora, è rimasta la cicatrice, su quella lastra”. In via Ravenna, come ho appena scritto. Poi, Natale mi chiede di uscire un attimo, sul balcone. Mi indica sotto, dove ora si trova un caseggiato. “Vedi, prima c’era una falegnameria, bruciata anch’essa, con la guerra”.
Poi ripercorre gli anni felici di Torino, di un’economia diversa da quella attuale.
“Uno dei miei più grandi clienti, il maglificio Poletti, di Torino, impiegava più di 700 operai prima di fallire. Ubicata in via Sant’Ottavio, ci forniva commesse per la produzione di oltre mille scatole al giorno”.
Poi venne il periodo dei cuscinetti a sfera e la concorrenza svedese, insieme alla plastica che aveva il pregio e convenienza per loro, di avvolgere un quantitativo maggiore di cuscinetti. Gherardi e la sua fabbrica utilizzavano una procedura di confezionamento tradizionale, ad uno ad uno e cosi la plastica finì per mangiarsi il cartone. “Abbiamo dovuto reinventarci ancora una volta. Gli operai si ridussero a 11 e ancora a 6. Poi l’innovazione, e le macchine che fustellavano, verso gli anni ’80 fecero il resto. La scatola tradizionale lentamente sparì. Ora sono tutte stampate. Un tempo, era tutto artigianale. Oggi, questo lavoro qui, lo si trova digitando “litografie”. Ah, quando penso alle scatole da scarpe……..la carta interna…ecc. ecc. Quanto lavoro e quanti operai.”
Gherardi cede lo scatolificio nel 2006 (guarda un po’, la scritta fotografata Lingotto 2006) con due ragazze addette al lavoro. In seguito, lo “scatolificio” si è trasferito dalle parti di corso Vigevano.

La mattinata è stata lunga e dispendiosa, per Natale. Racconti pubblici e privati. Ma ci siamo dati ancora appuntamento, qui, dalle parti di via Ravenna, su questo spicchio di terra dove “insistono” persone che davvero hanno scritto un pezzo di storia.
Ora, Gherardi Natale non ha più il suo grembiule da lavoro, nero, ma allarga continuamente a tutti sorrisi esattamente come un tempo. In basso foto di Natale Gherardi al tempo del militare in compagnia del padre a Torino e nella foto piccola, Giulia da ragazza.
Paginette di Primo Levi Segni sulla Pietra
Diego Novelli, Le Bombe di Cartapesta
Pensiero Acutis. Evento in corso
Momenti di incontro e occasione per festeggiare i 90 anni del sig. Pensiero Acutis.
Ne approfitto per sintetizzare l’articolo precedente composto dall’intervista a Pensiero sulla sua esperienza di ex-internato militare italiano.
“Il dieci settembre 1943 mi trovavo in Liguria, al centro reclute di Diano Marina. Non ho fatto la “naja” e neanche il giuramento. Cosa importantissima per gli sviluppi successivi e nel dibattito storico. Rientrò a Torino soltanto il 20 agosto del 1945. Eravamo venuti a conoscenza dell’armistizio ma restammo all’oscuro di ulteriori notizie da parte dei comandanti. Il soggiorno al CAR di Diano Marina venne interrotto per una affrettata partenza notturna. Colle di Nava, Ormea, Alessandria. Queste le tappe. Da qui poi a Verona dove ci dissero esservi un grande campo per noi militari, più capiente di quello di Alessandria. A Verona trovammo una giornata uggiosa. Pioveva. Chiusi ermeticamente nel vagone. Ben presto capimmo il nostro destino. Alcune infermiere, da dietro il vagone, per mezzo di minuscoli fori, ci porsero fogliettini e matita: avremmo dovuto scrivere il nostro nome, cognome, e indirizzo. Il treno riprese il suo percorso e quando il portellone si riaprì eravamo in Austria. Una decina di giorni, in queste condizioni bestiali. Ti riservo la descrizione della condizione umana, o di quel che restava, se ve ne era ancora,e ti rimando alla lettura del libro, Stalag XA. Storia di una recluta. Arrivammo a Sanbostel, cittadina vicino Brema. Li spirava il vento del Nord.
Nel nostro viaggio avevamo attraversato Monaco di Baviera, Augsburg, Norimberga, Bamberg.
A Sandbostel comincia la storia di una recluta.
Qui abbiamo appreso gli avvenimenti accaduti dopo l’8 settembre, dal console di Amburgo. Su di un palco, approntato nel campo, un gerarca fascista ci disse: “Soldati! Il Duce è stato liberato ed è stata costituita la Repubblica sociale italiana. Il Re e il Maresciallo Badoglio sono vigliaccamente fuggiti lasciando l’Esercito italiano allo sbando. Voi, per riscattare l’onore militare oltraggiato, avete il dovere di aderire a questa repubblica per ritornare a combattere al fianco dell’amica e alleata nazione tedesca. In caso contrario sarete considerati soldati traditori e trattati di conseguenza”. Pochi, molto pochi si fecero avanti. Solo alcuni altoatesini dissero si. 600 mila furono i no convinti.
La scelta. Una situazione anomala. Da sempre, nella storia, i prigionieri sono sempre rimasti tali. Punto. In quel momento eravamo i soli protagonisti, raggruppati in quel limitato territorio a più di 1500 km dal nostro Paese. Io poi non avevo fatto nessun giuramento, quindi…
A Sandbostel divenni un numero. Su di una piastrina metallica venne stampata la mia nuova carta di identità: 151233. Ognuno di noi ricevette un incarico, un lavoro. Molti furono impiegati a scavare macerie. Intanto, dopo esser stati sottoposti ad una disinfestazione una ulteriore carta di identità ci venne stampata sullo schienale delle casacche a caratteri cubitali: IMI. La recluta Pensiero Acutis divenne, come tante altre, Internato militare italiano, non più prigioniero di guerra. Come Internato militare, l’approdo era l’esclusione dai benefici della Croce Rossa Internazionale, dalle Convenzioni.
Dopo Sandbostel, un soggiorno di un mese, l’approdo ad Amburgo. Qui, in un clima autunnale che diventava via via sempre più rigido, sperimentai la condizione bestiale a cui è sottoposto l’uomo in talune condizioni dove si fanno forti gli istinti bestiali. Avevo pantaloni di tela che non opponeva nessuna barriera al freddo. Mi furono scambiati gli scarponi con un paio di scarpe logore e consunte, approfittando della stanchezza che aveva preso il sopravvento facendomi addormentare per la troppa stanchezza. Lunghi e forzati digiuni. Giornate che trascorrevano lente dominate da tre temi: fame, freddo e tedio. Aspettare 24 ore per un pezzo di pane da affettare e condividere: una grande responsabilità per chi era addetto a tale compito. Unica consolazione: la lettura del Vangelo lasciatomi da mia sorella Vera.
Fortunatamente, a causa di un infortunio al polso, ebbi modo di essere dichiarato per un bel po’ inabile al lavoro. Cosa che mi permise di avere del tempo libero a mia disposizione e di conoscere la città e i cittadini, che, a dire il vero avevano un forte senso di indipendenza. Erano anarcoidi e tale mi sentivo. Facevo del commercio scambiando quel poco che si aveva con i cittadini. Rientrato al campo, si divideva il tutto.
Chi sono gli internati militari?
“E’ una storia poco conosciuta. Sono stati considerati quasi come imboscati per molto tempo. Al mio ritorno a Torino, salito sul tram, i passeggeri che mi erano intorno, nel riconoscere la mia provenienza guardandomi, alzarono la voce tra loro dicendo: noi abbiamo avuto la tessera, la guerra, i bombardamenti, loro invece…Indifferenza, ignoranza, sospetto. Eravamo piu di 600 mila. Avessimo aderito alla Repubblica Sociale, l’esito della guerra sarebbe stato diverso, sicuramente un esito dai tempi piu lunghi. Per fare luce sulla storia, poco conosciuta ho pensato di approfittare della mia conoscenza con l’archivio cinematografico della Resistenza. Con i dirigenti di quella associazione decidemmo di pubblicare un libro da distribuire nelle scuole. Nacque così “Seicentomila no. La Resistenza degli internati militari italiani”. La volontà è quella di distribuirlo in tutte le biblioteche delle istituzioni scolastiche di Torino e provincia. Almeno, prima che si chiudano i battenti. I sopravvissuti non sono molti. E’ una iniziativa che serve per restituire qualcosa alle scuole, per tamponare quel vuoto che è andato avanti per troppi anni. Per colmare quell’ignoranza su di un tema che ha avuto un certo sviluppo a partire dalla seconda metà degli anni 80, grazie a convegni e lavori di alcuni storici. Dal punto di vista divulgativo la storia degli internati militari è di fatto rimasta tra parentesi e percio’ sottaciuta. Un vuoto.”
Rivolgo alcune domande su questo vuoto anche al dottor Corrado Borsa, dell’ANCR.
“Per quanto riguarda gli internati militari veniamo da un lungo silenzio non perché dell’internamento militare non si parlasse ma perché quando lo si faceva, se ne parlava come di una esperienza non iscritta nelle altre che hanno caratterizzato il secondo conflitto mondiale per l’Italia in particolare dopo l’8 settembre del 1943: una cosa è la Resistenza, una cosa è la Repubblica di Salò, una cosa è l’occupazione tedesca, una cosa è la liberazione da parte degli alleati che lentamente progredisce da Sud verso Nord, una cosa è la prigionia militare dei tantissimi militari italiani catturati sui fronti di guerra prima dell’8 settembre del 1943, cosa diversa ancora che è difficile trovare l’addentellato con tutto il resto che è l’esperienza dell’internamento militare, l’esperienza cioè di tanti militari italiani che dopo l’8 settembre e lo sbandamento dell’esercito italiano dopo la proclamazione dell’accordo con gli alleati da parte di Badoglio, sono catturati dai tedeschi”.
Il libro si compone di un dvd che a sua volta ha dato origine al libro per raccontare la storia degli internati militari italiani. Anche quella di Pensiero Acutis.
Pensiero Acutis. Storia di un ex-internato militare
Sentivo il bisogno di raccontare, meglio, di ascoltare, approfondire, scrivere qualcosa di particolare, una storia nella Storia. Qualcosa di impegnativo. Soprattutto perché poco conosciuta. E scriverla per intero, senza tagliare nulla, così come spesso, nell’ultimo periodo, molti ragazzi mi han chiesto di fare quando scrivo qualcosa di interessante per i loro studi.
Di questa storia, penso sicuramente utile per i ragazzi nelle scuole, magari riproposta prossimamente per una rivista, come accade da un po’ di tempo per alcuni articoli e con molto piacere e soddisfazione.
Quando cammino lungo le strade della circoscrizione così come l’ho conosciuta “Aurora, Rossini, Valdocco” precisamente l’area che insiste in quella fetta di quartiere definita dei santi sociali, tra via don Bosco, via Maria Ausiliatrice e via Cottolengo, (ma che io ho l’abitudine di allargare fino in corso Valdocco, dove è situato l’Istituto Storico della Resistenza) mi capita spesso di incontrare due poli di quel mondo: la scuola e la saggezza. Nei pomeriggi estivi di questa estate mi è capitato sovente di incontrare un signore, di bell’aspetto, dal giornalaio, in coda in qualche negozio, intento nelle sue compere, talvolta dalle parti della Basilica di Maria Ausiliatrice. Le brevi battute quotidiane scambiate dal giornalaio su fatti politici ed economici sullo stato del nostro Paese ben presto han lasciato posto alla storia. Scopro che non solo ama leggere ma anche scrivere. Libri. Ne sente il bisogno.
La realtà di un lontano passato sempre presente. Pensiero Acutis
Un giorno provo a chiedergli: “Perché?” Mi risponde:
“Per lasciare traccia, memoria di sé e del proprio vivere, per salvarsi o essere salvati. Per far affiorare dall’oblio e dal nascondimento il passato, anche quello più doloroso”[1]. Vorrei capirne di più, rispetto alla memoria, al vivere, al desiderio, bisogno di scrivere. Gli chiedo se possiamo conoscerci.
Il suo nome è Pensiero Acutis, nato a Torino nel 1924 da genitori anarchici. La madre, Rosa Giuliano (1886-1947) il papà Anselmo Acutis (1879-1967)) è eclettico, innamorato della vita in tutte le sue forme: pittura, fotografia, arte. Chiaramente avendo questi amori inscritti nella pelle non può che frequentare l’Accademia di Belle Arti. Anselmo è ricordato tra i promotori degli scioperi contro l’intervento dell’Italia nella prima guerra mondiale. Manifestazioni contro la guerra che termineranno solo nel 1917. Verrà arrestato, processato e assolto e costretto ad andar via nel 1925, in epoca fascista, per le sue idee libertarie. “Papà che non è piu tornato. Andato via a 45 anni e morto poi all’età di 88 anni. Quando lo ha conosciuto aveva 22 anni, la prima volta che lo ha visto.”
Il fratello maggiore, anarchico, Libero, anche lui emigrato in Francia dove rimase vittima in un incidente stradale a 25 anni, all’uscita dal lavoro.
Una sorella, Vera, “cattolica proprio come me” ci tiene a precisare Pensiero, impiegata presso una fabbrica di sapone, Filippi di Cascine Vica, alle porte di Torino, sarà sindacalista nei chimici della Cisl, segretaria di Carlo Donat Cattin. Darà anche il suo contributo alla Resistenza confezionando pacchi per i prigionieri. Insomma, in tre in famiglia. Mamma, sorella e Pensiero. Ricorda di sua mamma che…
“Mamma Rosa praticamente ha condiviso miseria perché quando tutti il padre e il fratello erano andati via, la sorella era andata in convitto, era una lavoratrice in casa, sarta, era cravattaia e finì poi per andare a fare le pulizie all’officina Viberti. Morì giovane a causa di una lunga malattia durata quattro anni.”
Pensiero ricorda la sua gioventù, via Pisa, via Catania, “il Borgo dei morti”, come allora lo chiamavano. Poi, la Borgata Parella, il Martinetto con Marie Pallea, la moglie, sposata nel 1961, donna di origini francesi, morta recentemente dopo una lunga malattia. E infine, ora, dalle parti di Maria Ausiliatrice, in questa fetta di circoscrizione.
Nel nostro incontro mi indica la zona dei Salesiani. E ricorda.
“Sono un Ex allievo. Mia sorella frequentava le scuole dai salesiani e tramite loro c’era stato un interessamento anche per me. Mi son ritrovato sui banchi di scuola, o meglio, nei laboratori delle scuole dei Salesiani per diventare un rilegatore. Dopo cinque anni lo diventai e nel 1943 presi. Dopo la guerra primi di febbraio del 1946, entrai a lavorare alla Sei”. I suoi occhi si illuminano. Sono certo che si intravede in quell’edificio dietro i macchinari, al lavoro, con i colleghi e amici di una vita. Ricorda il Direttore Tecnico, il Commendatore Michelotti . “In quel periodo, in corso Regina, tra operai e impiegati eravamo circa quattrocento. Alla Sei, appena entravi, eri amico di tutti. C’era molto cameratismo tra operai e impiegati. Era una specie di famiglia. C’erano i turni, ma solo per certi tipi di lavori. Ultimamente solo per la legatoria. Così era il clima lavorativo e non solo in quegli anni, da queste parti. Si stampavano i Bollettini Salesiani, dizionari, grammatiche, libri e anche lettura amena”.
Continua a saltellare tra il passato ed il presente.
“Sono piu di trenta anni che sono in pensione. Esattamente nel 1984”.
Negli ultimi anni, purtroppo, molto era cambiato. Nel suo racconto si trovano altri amori, quelli della montagna, ad esempio, insieme a quello ricordato prima delle letture.
Torino, come la ricorda nei suoi anni giovanili? E come è oggi?
“Ho avuto modo di rimuginare dopo una caduta dello scorso inverno. Tempo libero per tornare sui passi giovanili”. E così dipana i suoi racconti: “I primi dieci anni di via Pisa, in quel casone dove c’erano centinaia di famiglie, c’era di tutto, impiegati, operai, vagabondi e tanta solidarietà- Non come ora che un pianerottolo divide alcune famiglie senza sapere nulla l’una dell’altra. In via Pisa, si era poveri, ma vicini-vicini in tutti i sensi. Oggi si è vicini ma si è lontani. Questa è la condizione, oggi.”
Dopo la guerra come era Torino?
“Tutti ci ci davamo da fare per la ricostruzione. In molti cercavano lavoro”. La Fiat non era ancora il serbatoio di manodopera come lo si è conosciuto negli anni ‘60”. Nei suoi racconti, tanta ricostruzione, malcontento ma anche tanta speranza. Di una vita migliore. Lentamente, il discorso si avvia al tema della guerra, all’8 settembre 1943, alla sua deportazione, in Germania. Iniziano i suoi ricordi.
La storia di una recluta: Pensiero Acutis.
“Il 10 settembre 1943 ero in Liguria, al centro reclute di Diano Marino. (Naja, che non ho fatto, e neanche il giuramento. Il mio rientro a Torino sarà il 20 agosto del 1945). Un periodo in cui ci hanno tolto molto, quasi tutto. Stenti e fame erano all’ordine del giorno. In due occasioni soltanto, nell’arco di dieci giorni, ci fu dato un tozzo di pane nero e un pezzo di formaggio. E’ stato un viaggio bestiale, quello dell’andata. (Il ritorno, avvenne sempre per mezzo di tradotte ma ormai era un rimpatrio, del tutto diverso dall’andata. Al rientro, i primi mesi, trovai lavoretti in nero, un po’ qua e un po’ la). Ci fecero prendere la strada che va verso il Colle di Nava e fummo accolti, a metà strada da due camionette di tedeschi, armati fino ai denti, che han cominciato a sparare, a noi, disarmati. Uno dei nostri che conosceva il tedesco parlo’ con la pattuglia chiedendo spiegazioni sul senso di quanto stava accadendo. L’ordine era di proseguire fino ad Ormea e da li poi una tradotta ci avrebbe condotti ad Alessandria dove li, gli dissero, era stato allestito un grande campo di smistamento dove l’esercito italiano, sciolto, si sarebbe ritrovato. Abbiamo pensato: e allora, tutti a casa. Se è così, allora, va bene. Non era neanche il caso di scappare, poi. Perché farsi fucilare dietro se tanto poi avremmo riacquistato la nostra libertà? Eravamo più di duemila militari. Una volta arrivati ad Alessandria (dopo aver lasciato Ormea) ci chiedevamo dove fosse quel campo “benedetto”. La nostra domanda ottenne una risposta. Il campo non era ad Alessandria. A Verona ne avremmo trovato uno più capiente. Era una giornata uggiosa. Pioveva. Eravamo chiusi ermeticamente nel vagone. Alcune infermiere ci porsero foglietti di carta e matita dove avremmo dovuto scrivere il nostro indirizzo. Ma quando il portellone si riaprì, eravamo in Austria. Il viaggio continuò così per una decina di giorni e quando era ora di scendere eravamo giunti “al Nord”, nei pressi di una Sandbostel, cittadina vicino Brema, dove era stato allestito un campo di smistamento. Gli storici dissero che eravamo quattromila. Monaco di Baviera, Augsburg, Norimberga, Bamberg, le città passate durante il viaggio di Pensiero. A Sandbostel trovammo un palco dove si precipitò a parlarci un gerarca fascista. Il suo discorso fu questo. Il Re e Badoglio erano fuggiti lasciando l’esercito allo sbando e per conservare l’onore della patria era stata costituita una Repubblica Sociale alla quale quanti si trovavano li, nel campo, a Sandbostel, dovevano aderire e ritornare a combattere con l’amico alleato tedesco, diversamente saremmo stati considerati soldati traditori e come tali trattati. Una cosa poco simpatica a mille, millecinquecento km da casa nostra. Ma dove era, casa nostra, in quel momento? Si faccia avanti chi vuole firmare, disse quel gerarca. La condizione: o di qua o di là. Di quelle migliaia pochi si fecero avanti. A dire il vero, erano piu gli altoatesini, che si fecero avanti. Fummo “sguinzagliati” qua e la in vari campi per lavorare. In più di seicentomila militari finirono da queste parti, e 600 mila furono i no convinti. Venni spedito ad Amburgo ove restai fino al giorno del rimpatrio. Lavoro: scavare macerie prima e finito in un deposito di legname, fino al settembre del 44. Da internato militare militare diventammo internati civili come lavoratori normali, sorvegliati h 24, pagati, pero’, in marchi.”
L’infortunio e i rapporti con i cittadini tedeschi.
Il diciotto settembre del 1944 subì un infortunio al polso. Un ricordo aggiuntivo che mi accompagna da settanta anni. In quel modo non ero più abile.
“Venivo collocato a riposo. Giravo la città di Amburgo, città un po’ anarcoide. Quella città mi raccontava un pochino. Era una città giovane. Erano repubbliche militari con senso di indipendenza. Si sentivano repubbliche marinare. Non tanto tedeschi. Con la popolazione mi son sempre trovato bene. Andavo in giro, facevo commercio con i buoni tessera. Al campo poi, si divideva tutto. Poi, dopo i mesi di disperazione, arrivarono le truppe anglo canadesi a liberarci.”
Ma chi sono “gli internati”?
“La storia degli internati militari è poco conosciuta. Fin dagli inizi, in diversi ambienti, sono stati considerati come imboscati quasi come avessero scelto non come nella realtà tra prigionia o SS, ma come scelta identificata come un quieto vivere, collocandosi in una zona grigia. Tanto è vero che quando sono rientrato in Italia, col treno a Porta Susa, mentre contavo i soldi per salire sul tram zeppo di passeggeri e come mi hanno visto han cominciato a parlottare tra di loro dicendo: noi i bombardamenti, la tessera e altro mentre loro…e mentre si dicevano queste cose mi guardavano come se io e gli altri fossimo tornati da una villeggiatura. Quanta i indifferenza, ignoranza, sospetto. Gli insegnanti dicevano di sapere poco sugli internati. Era calata la nebbia o così si voleva. Nei libri di storia non si accenna molto agli internati, p vero. Ferruccio Maruffi, del 1924, Presidente dei deportati politici, va sempre in giro a testimoniare. Ha scritto diversi libri ed è stato l’unico che ha difeso gli internati militari definendoli eroi. Erano circa 650 mila gli internati: se passavano con la Repubblica sociale in massa, praticamente l’esito della guerra sarebbe stato un altro, si sarebbe prolungata e forse si sarebbero scritta altre e piu copiose pagine. La sua esperienza è diversa dalla nostra, raccapriccia. Per quanto mi riguarda, in venti mesi, l’ultima comunicazione con la famiglia era riconducibile ad una lettera del novembre del quarantaquattro speditami dalla sorella attraverso la Croce Rossa. Poi, più nulla. Cosa trovero’? Questa era la domanda che mi accompagnava costantemente.”
Libro e la storia. Lo scopo.
“Come associazione pensavano di fare qualcosa che restasse impresso, andare nelle scuole era diventato riduttivo. Ero aggregato con l’archivio cinematografico della Resistenza. Con i dirigenti di quella associazione avevamo deciso di pubblicare un libro da distribuire nelle scuole. La difficoltà non consisteva nello scrivere un libro ma di trovare i fondi. Per un po’ di anni, un Generale di corpo d’armata che era ex comandate regione militare nord che aveva sposato la nostra causa ci diede una mano insieme al vice presidente Roberto Placido che ha sempre sostenuto la causa. E’ stato così pubblicato il volume seicentomila NO. La resistenza degli Internati militari italiani, kappa edizioni. La volontà è quella di distribuirlo in tutte le biblioteche delle istituzioni scolastiche di Torino e provincia. Prima di chiudere i “battenti”. I sopravvissuti non sono poi molti. Per restituire qualcosa alle scuole, per tamponare quei buchi che ci hanno accompagnato per molto tempo. Perché in molti erano all’oscuro sulla faccenda. “
Il libro si compone di un dvd o meglio sarebbe dire che è nato prima il dvd e poi il libro 600 mila no. La Resistenza degli internati militari italiani. Anche quella di Pensiero Acutis.
Ho cercato di ampliare il raggio della conoscenza recandomi presso l’ANCR, l’Archivio Nazionale Cinematografico della Resistenza, a Torino, in corso Valdocco 4, dove il dottor Corrado Borsa mi ha gentilmente forito ulteriori indicazioni sulla storia degli internati militari.
Il tema ha avuto un certo sviluppo a partire dalla seconda meta anni 80 grazie ad alcuni convegni e lavori di storici. Grazie a ciò si sono compiuti passi avanti e decisivi nel colmare quei buchi, vuoti, accennati precedentemente dal sig. Pensiero Acutis, ma dal punto di vista divulgativo la storia degli internati militari è di fatto rimasta tra parentesi e perciò largamente sottaciuta. I volumi attualmente in circolazione sono di storici tedeschi aventi come destinatari gli specialisti. Tali pubblicazioni non sono usufruibili come manuali tra le mani di uno studente liceale o di un semplice curioso che abbia voglia di documentarsi. Il libro di Pensiero è uno dei primi, forse il primo tentativo di offrire a chi volesse un testo che pur rigoroso dal punto di vista dell’apparato informativo è completo dal punto di vista della riproduzione di tutte le tappe che caratterizzano le vicende dell’internato in Italia. E’ un testo di facile lettura accessibile sul piano linguistico suddiviso opportunamente in modo tale che chi lo sfoglia sappia orientarsi facilmente e trovare risposte specifiche a domande specifiche.
Come mai questo “vuoto”, dottor Borsa?
“Per quanto riguarda gli internati militari, veniamo da un lungo silenzio non perché dell’internamento militare non si parlasse ma quando lo si faceva, se ne parlava come di una esperienza non iscritta nelle altre che hanno caratterizzato il secondo conflitto mondiale per l’Italia in particolare dopo l’8 settembre del 1943: una cosa è la Resistenza, una cosa è la Repubblica di Salo’, una cosa è l’occupazione tedesca, una cosa è la liberazione da parte degli alleati che lentamente progredisce da Sud verso Nord, una cosa è la prigionia militare dei tantissimi militari italiani catturati sui fronti di guerra prima dell’otto settembre del 1943, cosa diversa ancora e che è difficile trovare l’addentellato con tutto il resto è l’esperienza dell’internamento militare, cioè quella esperienza di quei tanti militari italiani che dopo l’8 settembre e lo sbandamento dell’esercito italiano dopo la proclamazione dell’accordo con gli alleati da parte di Badoglio, sono catturati dai tedeschi”.
La storia di persone, militari che si trovano senza ordini precisi e che molto spesso con la complicità di alcuni ufficiali che li comandano e che spesso non sanno neanche loro come comportarsi. Mentre i tedeschi, in quelle condizioni, non hanno nessuna difficoltà a catturarli e caricarli sui vagoni bestiame diretti in Germania rinchiusi poi nei lager per gli internati, (il loro satus giuridico per scelta della Germania Hitleriana, non è quello degli altri prigionieri di guerra è uno status particolare tra l’altro toglie loro alcune possibilità che invece usufruiscono altri prigionieri di guerra, ad esempio ricevere i pacchi e il controllo della Croce Rossa Internazionale sulle loro condizioni di salute e vita).
Perché questo status giuridico?
“Per due motivi. Da una parte la vendetta di Hitler verso gli italiani che avevano rotto l’alleanza con la Germania nazista firmando un armistizio con gli alleati e chiudendo così la guerra al fianco del la Germania nazista. Dall’altra la difficoltà di presentarsi alla Repubblica di Salò, la Repubblica fantoccio voluta da Hitler per gestire l’Italia occupata dai tedeschi con centinaia di migliaia di prigionieri italiani. La Repubblica di Salò è la nuova alleata della Germania nazista, continua la guerra a fianco dei nazista e nello stesso tempo la Germania nazista ha centinai di migliaia di prigionieri italiani. Questi non sono più prigionieri ma con magie giuridico formali diventano internati militari. L’internamento, da una parte, ha spiegazioni politico diplomatiche come status giuridico particolare, dall’altra parte significa un peggioramento per i prigionieri e ancora sottrae i prigionieri italiani alle convenzioni di Ginevra (del trattato che li tutela), consentendo ai tedeschi di utilizzare i soldati italiani in attività lavorative intense e soprattutto nell’ambito dell’industria bellica quando invece i prigionieri di guerra possono essere utilizzati si in attività di lavoro ma non legate direttamente alla produzione di armi. Percio’ i soldati italiani prigionieri vengono ad essere una manna per l’economia di guerra nazista in quanto come lavoratori vanno a ricoprire i ruoli che per primi avevano ricoperto in quella economia i sovietici, anche loro, per altre ragioni, al di fuori della Convenzione di Ginevra (quindi non tutelati).”
Perché non si parla di internamento militare a livello pubblico anche se gli internati militari una volta tornati, parlano della loro esperienza, e scrivono anche, come internati militari, come ad esempio è capitato con lo lo scrittore Guareschi? E rispetto alla Resistenza?
“Si, in effetti sono tanti i diari che pubblicati. Non se ne parla a livello pubblico perché il tema sugli internati militari costituisce una difficoltà nel suo svolgimento. Se li si pensa come di fatto e tali sono degli oppositori al nazismo e al fascismo e apparentabili ai partigiani, questi ultimi, dicono: “ loro sono tantissimi e sommergono quella che è una esperienza importantissima per la conquista della democrazia italiana ma per partecipanti ridotta”. Seicentomila sono i militari internati italiani che rifiutano la collaborazione con il nazismo e il fascismo e i partigiani al massimo duecentocinquantamila. Si potrebbe aprire così una sorta di competizione se vogliamo, anche se oggi, sia gli internati militari da una parte, sia i partigiani dall’altra, riconoscono il denominatore comune che li unisce. Profondamente convinto che gli internati militari italiani sono dei resistenti. Così non è stato considerato a livello pubblico nella storia, nel passato, almeno fino agli anni 90.”
Rispetto alla domanda: si tratta o meno di una resistenza?
“E’ sicuramente Resistenza anche perché alla base della esperienza terribile degli internati militari italiani più o meno terribile in alcuni casi ma comunque sempre tormentosa ma molto spesso con esiti letali con malattie che insorgono e che poi permangono a minare il fisico di chi ha vissuto quell’esperienza, alla base di tutto questo vi è una scelta. A differenza di tutti gli altri prigionieri di guerra che quando vengono catturati sono prigionieri di guerra e non possono essere considerati che tali, agli internati militari, i tedeschi, da subito, dal momento della cattura e poi successivamente e poi ancora i fascisti di Salo’, quanto visitano i campi di internamento pongono la domanda ai militari intenrati: perché non passate dalla nostra parte? Perché non continuate la guerra con noi? Dire si avrebbe significato fuoriuscire dalle terribili condizioni che la guerra pone: fame, bombardamenti, oppressione, esclusione da lavoro forzato a cui molti sono costretti, ritornare casa,usufruire da subito un’alimentazione che è quella dei soldati tedeschi, abiti decenti, uniformi. Un certo numero sugli 800.000 aderiscono a queste profferte anche per disperazione. Con il loro si, passano dall’altra parte, inserendosi così nella Repubblica di Salo. Altri transitano solo, da qui, per arrivare ai partigiani e inserirsi poi nella Resistenza. Altri, restano in Germania. 40 mila di loro restano in Germania, morti, per stenti, fucilazioni, bombardamenti che li colpiscono così come colpivano i tedeschi.”
La dislocazione dei campi riservati agli internati, sul territorio della Germania, come era?
“ I campi come nel sistema di prigionia di guerra tedesco sono distribuiti in tutto l’ampio territorio. Questo per due ragioni. Il primo. Gruppi consistenti si controllano meglio di enormi gruppi concentrati in un solo punto. Secondo perché la loro distribuzione consente un utilizzo più acconcio nell’ambito dell’economia di guerra: il campo vicino la fabbrica x o y o legato all’economia agricola sono serbatoi di mano d’opera. Non erano “concentrati” con gli altri prigionieri, ma erano divisi, articolati da altri. Avevano uno status peculiare. 800 mila i prigionieri catturati e portati in Germania”.
I tedeschi catturano dopo l’8 settembre piu di un milione di italiani, poi alcuni riescono a fuggire. L’esercito italiano durante la seconda guerra mondiale mette in campo circa tre milioni e mezzo di uomini. Molti sono catturati da americani, russi, francesi, inglesi, molti rimangono sul fronte fino all’ultimo, fino al disfacimento totale dell’esercito, l’8 settembre e poi vengono catturati dai tedeschi. Altri fuggono e divengono partigiani e si attestano sulle montagne, ma anche sui balcani. In Grecia accade qualcosa di simile. Anche nei Balcani dove erano collocate le truppe italiane all’otto settembre. Che succede ai soldati italiani in queste regioni?
“I soldati italiani invece di farsi catturare dai tedeschi passano con i partigiani greci, tedeschi, albanesi a combattere in reparti, alcuni coprendosi anche di gloria con riconoscimento ampio. La cattura da parte dei tedeschi di tutti questi soldati italiani ha anche un altro intento che è quello di impedire agli italiani di ripensarci, di riorganizzare l’esercito che possa combattere efficacemente contro i tedeschi. Italiani alleati a questo punto con gli americani e inglesi e con l’esercito italiano spazzato via: il miglior modo era di catturare l’esercito italiano e portarlo via, in Germania dove sarebbero stati utilissimi all’economia militare tedesca, in quanto i soldati tedeschi erano al fronte.”
Le scelte dei 600 mila e di Pensiero.
Quando parliamo di scelta, parliamo di individui che scelgono da se. Il governo Badoglio che si ricostituisce al Sud, prima in Puglia, poi a Salerno e poi dopo la liberazione a Roma, e, dall’altra parte il CLN costituiranno teste che dirigeranno o contribuiranno a organizzare, costituire forme di resistenza. Cosa è l’8 settembre? Cosa rappresenta, cosa è stato?
“L’8 settembre ne fa una pagina particolare drammatica e straordinaria un nuovo inizio per l’Italia, la scelta non avviene perché qualcuno ti dice “fa così”. Pensiero Acutis aveva 19 anni e sceglie a partire da valori che sono interiorizzati nella famiglia, in dimensioni che non sono quelle normali, politico istituzionali e percio’ è una pagina che si scrive in un contesto inimmaginabile oggi, inseriti come siamo in un contesto in cui il cittadino è continuamente messo a confronto con autorità democraticamente elette con responsabili, sia pur giustificati nel loro ruolo da tutte una serie di procedure.”
Chi c’era nelle caserme? E cosa succede dopo l’8 settembre ai militari? Quanti ne sono rimasti in vita, oggi?
“In Italia come dappertutto, erano piene di soldati. La mancanza di ordini, di coordinamento, per quanto riguarda gli italiani. I tedeschi invece, erano” pronti” in quanto immaginavano il passaggio dell’Italia con gli americani, gli alleati e ciò ha fatto si che le caserme si svuotassero. In un attimo. Alcuni intuiscono i pericoli e riescono a scappare anche se non conoscono i dettagli della trattativa, ma i tedeschi erano già preparati e pronti a questo passaggio. Erano uomini decisi, sapevano cosa dovevano fare e in pochi, in minoranza, in poco tempo,catturano soldati che non sanno cosa fare. E così in mancanza di ordini, la resa. Ciascuno è solo sul cuore di quella terra in quel momento e ciascuno trova il coraggio o meno, da solo. Una pagina che fonda la nuova Italia e rende gli internati militari simili ai partigiani.”
Quanti ne sono rimasti?
” A Torino, una stima approssimativa, dice che gli internati militari non sono piu di dieci. Un migliaio erano quanti riusciti a ritornare.”
Il libro e video nasce dall’intento di restituire a quei soggetti, gli internati militari, il posto che hanno effettivamente occupato con la loro scelta drammatica che vivono nella storia dell’Italia in guerra e nella storia della rinascita. Nascita democrazia, della Repubblica che si sviluppa poi nel tempo.
L’interesse si è rivelato enorme e anche nelle scuole, ragazzi e insegnanti hanno mostrato interesse sul tema. Anche per un fatto che sembra banale ma non è marginale. 600 mila. Centinaia di famiglie italiane sono coinvolte nella vicenda degli internati, padri, madri, nonni, parenti e sempre più persone scoprono che un loro congiunto ha avuto quella esperienza e allora hanno cominciato ad interrogarsi.
E gli internati, in prima persona, hanno mai raccontato le vicende di quel periodo?
“Gli internati non parlano della loro esperienza al loro ritorno. Storie di guerra, di sofferenza, di prigionia, non piacciono. Questa è la verità. Edoardo De Filippo, era solito dire per le storie dolorose, “non ci parlare di queste cose” e così in molti han continuato a portare e portano dentro questo dramma e lentamente lo silenziano. Dai diari, ricordi dei parenti escono queste domande. Il dvd e i libro vogliono essere una risposta, anche al discorso pubblico.”
Il libro è stato pubblicato nel gennaio 2014 e nasce da un film che è il prodotto di una quantità notevole di raccolte e testimonianze che l’archivio nazionale cinematografico della Resistenza ha condotto per raccogliere testimonianze di quelli che avevano vissuto quella esperienza e che non avevano mai raccontato.
Negli archivi mancavano quasi totalmente in quanto archivi dedicati ad altre vicende, come quelle dei partigiani.
Il film nasce sulla base di due anni di lavoro e poi esce in dvd accompagnato da una opera multimediale che ha delle schede che spiegano che cosa è l’internato. Un libro dvd pensato proprio per la scuola
IL titolo del film è lo stesso del libro, “Seicentomila NO. La resistenza degli Internati militari italiani”.
Tantssimi italiani dicono no come scelta personale al nazifascismo e subiscono conseguenze pesantissime e pagano ogni giorno e per venti mesi questo loro no e poi ulteriormente. Non riconosciuti poi debitamente né dalla Germania che li ha sfruttati brutalmente né dall’Italia se non in alcuni casi con riconoscimenti simbolici con delle medagliette.
Per festeggiare insieme i 90 anni di Pensiero Acutis, presso la Sala Conferenze del Museo Diffuso di Corso Valdocco 4 a Torino, Mercoledì 17 settembre 2014 alle ore 15.30. Con gli interventi del Dottor Corrado Borsa, Gianna Montanari, Nanni Tosco.
[1][1] Pensiero Acutis, Stalag XA, Storia di una recluta. Rubbettino Editore, Soveria Mannelli, 2005.
La mia Torino…
Come detto in altre occasioni, la mia Torino, non confluisce a Piazza Vittorio. Non solo. Un giro dalle parti di Parco Dora. In lontananza, lo scheletro di quella che è stata una fabbrica, un monumento al movimento operaio. Ora, si corre, si socializza, si gioca, si studia, ci si fotografa, si contempla, si prega, si ascolta il rumore del fiume, si raccolgono ricordi sbrecciati che univano qualcuno, si fanno “book”.Forse da tempo ha perso i cartelli storici, che ne rammentavano i pericoli ma oggi, Parco Dora pare aver trovato una nuova vocazione, trasformandosi in un set televisivo: Peppone e don Camillo. Ebbene, da lontano, si nota una bella bandiera rossa che sventola proprio davanti alla Curia e i suoi uffici. Forse è il ben venuto o il “ben tornata” alla sinistra radicale presentatasi con la lista Alex Tsipras, “l’Altra Europa“. O forse, un simbolo. Avanti a sinistra. Chi lo sa. Noi lo registriamo, lo raccogliamo e socializziamo questo evento.
Questa volta non è un typos, un’ombra, una prefigurazione. Anche se con queste nuvole è facile immaginare il fumo delle ciminiere un tempo ivi residenti, lo sbarramento è stato superato.
In ogni senso. Anche per posizionare la bandiera. Una foto che sembra uscita da qualche libro di storia. Da fine seconda guerra mondiale. Una bandiera, rossa, piazzata da un soldato dell’ armata rossa. Che sventolaa sui palazzi di Berlino.
Ci Che si vede ogni volta che si sfogliano le ultime pagine del libro di quinta superiore. Lo sbarramento è stato superato. A proposito di ombre. Bello il disegno di una bicicletta sull’asfalto, parcheggiata per una dichiarazione d’amore. Unico neo, e da questo blog lancio un appello, in Piazza Umbria, corso Umbria, c’era una volta una iscrizione in marmo “Torremaggiore”. Non se ne capisce il motivo ma “giace” su una panchina. L’iscrizione in marmo è stata rotta in più pezzi. Una pericolo e una ferita nel cuore. Speriamo che il giornale cittadino se ne faccia carico per rimbalzare la notizia e sollecitare le istituzioni, in modo tale da posizionarne una nuova.