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Pensiero Acutis. Evento in corso

Torino, 14 settembre 2014. Pensiero Acutis e Romano davanti la Sei.Foto, Borrelli RomanoMomenti di incontro e occasione per festeggiare i 90 anni del sig. Pensiero Acutis.20140917_155303

Ne approfitto per sintetizzare l’articolo precedente composto dall’intervista a Pensiero sulla sua esperienza di ex-internato militare italiano.

“Il dieci settembre 1943 mi trovavo in Liguria, al centro reclute di Diano Marina. Non ho fatto la “naja” e neanche il giuramento. Cosa importantissima per gli sviluppi successivi e nel dibattito storico. Rientrò a Torino soltanto il 20 agosto del 1945. Eravamo  venuti a conoscenza dell’armistizio ma  restammo all’oscuro di ulteriori notizie da parte dei comandanti. Il soggiorno al CAR di Diano Marina venne interrotto per una affrettata partenza notturna. Colle di Nava, Ormea, Alessandria. Queste le tappe. Da qui poi a Verona dove ci dissero esservi un grande campo  per noi militari, più capiente  di quello di Alessandria.  A Verona trovammo una giornata uggiosa. Pioveva. Chiusi ermeticamente nel vagone. Ben presto capimmo il nostro destino. Alcune infermiere, da dietro  il vagone, per mezzo di minuscoli fori, ci porsero fogliettini e matita: avremmo dovuto scrivere il nostro nome, cognome, e indirizzo. Il treno riprese il suo percorso e quando il portellone si riaprì eravamo in Austria.  Una decina di giorni, in queste condizioni bestiali. Ti riservo la descrizione della condizione umana, o di quel che restava,  se ve ne era ancora,e ti rimando alla lettura del libro, Stalag XA. Storia di una recluta. Arrivammo a Sanbostel, cittadina vicino Brema. Li spirava il vento del Nord.

Nel nostro viaggio avevamo attraversato Monaco di Baviera, Augsburg, Norimberga, Bamberg.

A Sandbostel comincia la storia di una recluta.

Qui abbiamo appreso gli avvenimenti accaduti dopo l’8 settembre, dal console di Amburgo.  Su di un palco, approntato nel campo, un gerarca fascista ci disse: “Soldati! Il Duce è stato liberato ed è stata costituita la Repubblica sociale italiana. Il Re e il Maresciallo Badoglio sono vigliaccamente fuggiti lasciando l’Esercito italiano allo sbando. Voi, per riscattare l’onore militare oltraggiato, avete il dovere di aderire a questa repubblica per ritornare a combattere al fianco dell’amica e alleata nazione tedesca. In caso contrario sarete considerati soldati traditori e trattati di conseguenza”. Pochi, molto pochi si fecero avanti. Solo alcuni altoatesini  dissero si. 600 mila furono i no convinti.

La scelta. Una situazione anomala. Da sempre, nella storia, i prigionieri sono sempre rimasti tali. Punto. In quel momento eravamo i soli protagonisti, raggruppati in quel limitato territorio a più di 1500 km dal nostro Paese. Io poi non avevo fatto nessun giuramento, quindi…

A Sandbostel divenni un numero. Su di una piastrina metallica venne stampata la mia nuova carta di identità: 151233. Ognuno di noi ricevette un incarico, un lavoro. Molti furono impiegati a scavare macerie. Intanto, dopo esser stati sottoposti ad una disinfestazione una ulteriore carta di identità ci venne stampata sullo schienale delle casacche a  caratteri cubitali: IMI. La recluta Pensiero Acutis divenne, come tante altre, Internato militare italiano, non più prigioniero di guerra. Come Internato militare, l’approdo era l’esclusione dai benefici  della Croce Rossa Internazionale, dalle Convenzioni.

Dopo Sandbostel, un soggiorno di un mese, l’approdo ad Amburgo. Qui, in un clima autunnale che diventava via via sempre più rigido, sperimentai la condizione bestiale a cui è sottoposto l’uomo in talune condizioni dove si fanno forti gli istinti bestiali.  Avevo pantaloni di tela che non opponeva nessuna barriera al freddo.  Mi furono scambiati gli scarponi con un paio di scarpe logore e consunte, approfittando della stanchezza che aveva preso il sopravvento facendomi addormentare per la troppa stanchezza. Lunghi e forzati digiuni. Giornate che trascorrevano lente dominate da tre temi: fame, freddo e tedio. Aspettare 24 ore per un pezzo di pane da affettare e condividere: una grande responsabilità per chi era addetto a tale compito. Unica consolazione: la lettura del Vangelo lasciatomi da mia sorella Vera.

Fortunatamente, a causa di un infortunio al polso, ebbi modo di essere dichiarato per un bel po’ inabile al lavoro. Cosa che mi permise di avere del  tempo libero a mia disposizione e di conoscere la città e i cittadini, che, a dire il vero avevano un forte senso di indipendenza. Erano anarcoidi e tale mi sentivo. Facevo del commercio scambiando quel poco che si aveva con i cittadini. Rientrato al campo, si divideva il tutto.

Chi sono gli internati militari?

“E’ una storia poco conosciuta. Sono stati considerati quasi come imboscati per molto tempo. Al mio ritorno a Torino, salito sul tram, i passeggeri che mi erano intorno, nel riconoscere la mia provenienza guardandomi, alzarono la voce tra loro dicendo: noi abbiamo avuto la tessera, la guerra, i bombardamenti, loro invece…Indifferenza, ignoranza, sospetto. Eravamo piu di 600 mila. Avessimo aderito alla Repubblica Sociale, l’esito della guerra sarebbe stato diverso, sicuramente un esito dai tempi piu lunghi. Per fare luce sulla storia, poco conosciuta ho pensato di approfittare della mia conoscenza con l’archivio cinematografico della Resistenza. Con i dirigenti di quella associazione decidemmo di pubblicare un libro da distribuire nelle scuole. Nacque così “Seicentomila no. La Resistenza degli internati militari italiani”. La volontà è quella di distribuirlo in tutte le biblioteche delle istituzioni scolastiche di Torino e provincia. Almeno, prima che si chiudano i battenti. I sopravvissuti non sono molti. E’ una iniziativa che serve per restituire qualcosa alle scuole, per tamponare quel vuoto che è andato avanti per troppi anni. Per colmare quell’ignoranza su di un tema che ha avuto un certo sviluppo a partire dalla seconda metà degli anni 80, grazie a convegni e lavori di alcuni storici. Dal punto di vista divulgativo la storia degli internati militari è di fatto rimasta tra parentesi e percio’ sottaciuta.  Un vuoto.”

Rivolgo alcune domande su questo vuoto anche al dottor Corrado Borsa, dell’ANCR.

“Per quanto riguarda gli internati militari veniamo da un lungo silenzio non perché dell’internamento militare non si parlasse ma perché quando lo si faceva, se ne parlava come di una esperienza non iscritta nelle altre che hanno caratterizzato il secondo conflitto mondiale per l’Italia in particolare dopo l’8 settembre del 1943: una cosa è la Resistenza, una cosa è la Repubblica di Salò, una cosa è l’occupazione tedesca, una cosa è la liberazione da parte degli alleati che lentamente progredisce da Sud verso Nord, una cosa è la prigionia militare dei tantissimi militari italiani catturati sui fronti di guerra prima dell’8 settembre del 1943,  cosa diversa  ancora che è difficile trovare l’addentellato con tutto il resto che è l’esperienza dell’internamento militare, l’esperienza cioè di tanti militari italiani che dopo l’8 settembre e lo sbandamento dell’esercito italiano dopo la proclamazione dell’accordo con gli alleati da parte di Badoglio, sono catturati dai tedeschi”.

Il libro si compone di un dvd che a sua volta ha dato origine al libro per raccontare la storia degli internati militari italiani. Anche quella di Pensiero Acutis.

 

Pensiero Acutis. Storia di un ex-internato militare

Sentivo il bisogno di raccontare, meglio, di ascoltare, approfondire, scrivere qualcosa di particolare, una storia nella Storia. Qualcosa di impegnativo. Soprattutto perché poco conosciuta. E scriverla per intero, senza tagliare nulla, così come spesso, nell’ultimo periodo, molti ragazzi mi han chiesto di fare quando scrivo qualcosa di interessante per i loro studi.

Di questa storia, penso sicuramente utile per i ragazzi nelle scuole, magari riproposta  prossimamente per una rivista, come accade da un po’ di tempo per alcuni articoli e con molto piacere e soddisfazione.

Quando cammino lungo le strade della circoscrizione così come l’ho conosciuta “Aurora, Rossini, Valdocco” precisamente l’area che insiste in quella fetta di quartiere  definita dei santi sociali, tra via don Bosco, via Maria Ausiliatrice e via Cottolengo, (ma che io ho l’abitudine di allargare fino in corso Valdocco, dove è situato l’Istituto Storico della Resistenza) mi capita spesso di incontrare due poli di quel mondo: la scuola e la saggezza. Nei pomeriggi estivi di questa estate mi è capitato sovente di incontrare un signore, di bell’aspetto, dal giornalaio, in coda in qualche negozio, intento nelle sue compere, talvolta dalle parti della Basilica di Maria Ausiliatrice.  Le brevi battute quotidiane scambiate dal giornalaio su fatti politici ed economici sullo stato del nostro Paese ben presto han lasciato posto alla storia. Scopro che non solo ama leggere ma anche scrivere. Libri. Ne sente il bisogno.

La realtà di un lontano passato sempre presente. Pensiero AcutisTorino. Presso l'abitazione del sig. Pensiero Acutis. Foto, Romano Borrelli.

Un giorno provo a chiedergli: “Perché?” Mi risponde:

“Per lasciare traccia, memoria di sé e del proprio vivere, per salvarsi o essere salvati. Per far affiorare dall’oblio e dal nascondimento il passato, anche quello più doloroso”[1]. Vorrei capirne di più, rispetto alla memoria, al vivere, al desiderio, bisogno di scrivere. Gli chiedo se possiamo conoscerci.Torino, abitazione del Sig. Pensiero Acutis. Foto, Romano Borrelli

Il suo nome è Pensiero Acutis, nato a Torino nel 1924 da genitori anarchici. La madre, Rosa Giuliano (1886-1947) il papà Anselmo Acutis (1879-1967)) è eclettico, innamorato della vita in tutte le sue forme: pittura, fotografia, arte. Chiaramente avendo questi amori inscritti nella pelle non può che frequentare l’Accademia di Belle Arti. Anselmo è ricordato tra i promotori degli scioperi contro l’intervento dell’Italia nella prima guerra mondiale.  Manifestazioni contro la guerra che termineranno solo nel  1917. Verrà arrestato, processato e assolto e costretto ad andar via nel 1925, in epoca fascista, per le sue idee libertarie. “Papà che non è piu tornato.  Andato via a 45 anni e morto poi all’età di 88 anni. Quando lo ha conosciuto aveva 22 anni, la prima volta che lo ha visto.”

Il fratello maggiore, anarchico, Libero, anche lui emigrato in Francia dove rimase vittima in un incidente stradale a 25 anni, all’uscita dal lavoro.

Una sorella, Vera, “cattolica proprio come me” ci tiene a precisare Pensiero,  impiegata presso una fabbrica di sapone, Filippi di Cascine Vica, alle porte di Torino, sarà sindacalista nei chimici della Cisl, segretaria di Carlo Donat Cattin. Darà anche il suo contributo alla Resistenza confezionando pacchi per i prigionieri. Insomma, in tre in famiglia. Mamma, sorella e Pensiero. Ricorda di sua mamma che…

Mamma Rosa praticamente ha condiviso miseria perché quando tutti il padre e il fratello erano andati via,  la sorella era andata in convitto, era una lavoratrice in casa, sarta,  era cravattaia e finì poi per andare a fare le pulizie all’officina Viberti. Morì giovane a causa di una lunga malattia durata quattro anni.”

Pensiero ricorda la sua gioventù, via Pisa, via Catania, “il Borgo dei morti”, come allora lo chiamavano. Poi, la  Borgata Parella, il  Martinetto  con Marie Pallea, la moglie, sposata nel 1961, donna di origini francesi, morta recentemente dopo una lunga malattia. E infine, ora, dalle parti di Maria Ausiliatrice, in questa fetta di circoscrizione.

Nel nostro incontro mi indica la zona dei Salesiani. E ricorda.

“Sono un Ex allievo. Mia sorella frequentava le scuole dai salesiani e tramite loro c’era stato un interessamento anche per me. Mi son ritrovato sui banchi di scuola, o meglio, nei laboratori delle scuole dei Salesiani per diventare un  rilegatore. Dopo cinque anni lo diventai e nel 1943 presi. Dopo la guerra  primi di febbraio  del 1946, entrai a lavorare alla Sei”. Torino, 14 settembre 2014. Pensiero Acutis e Romano davanti la Sei.Foto, Borrelli Romano I suoi occhi si illuminano. Sono certo che si intravede in quell’edificio dietro i macchinari, al lavoro, con i colleghi e amici  di una vita. Ricorda il Direttore Tecnico, il Commendatore Michelotti . “In quel periodo, in corso Regina, tra operai e impiegati eravamo circa quattrocento.  Alla Sei, appena entravi, eri amico di tutti. C’era molto cameratismo tra operai e impiegati. Era una specie di famiglia. C’erano i turni, ma solo per certi tipi di lavori. Ultimamente solo per la legatoria. Così era il clima  lavorativo e non solo in quegli anni, da queste parti.  Si stampavano i  Bollettini Salesiani, dizionari, grammatiche, libri e  anche lettura amena”.

Continua a saltellare tra il passato ed il presente.

“Sono piu di trenta anni che sono in pensione. Esattamente nel 1984”.

Negli ultimi anni, purtroppo, molto era cambiato. Nel suo racconto si trovano altri amori, quelli della montagna, ad esempio, insieme a quello ricordato prima delle letture.

Torino, come la ricorda nei suoi anni giovanili? E come è oggi?

“Ho avuto modo di rimuginare dopo una caduta dello scorso inverno. Tempo libero per tornare sui passi giovanili”. E così dipana i suoi racconti: “I primi dieci anni di via Pisa, in quel casone dove c’erano centinaia di famiglie, c’era di tutto, impiegati, operai, vagabondi e tanta solidarietà- Non come ora che un pianerottolo divide alcune famiglie senza sapere nulla l’una dell’altra. In via Pisa, si era poveri, ma vicini-vicini in tutti i sensi. Oggi si è vicini ma si è lontani. Questa è la condizione, oggi.”

Dopo la guerra come era Torino?

Tutti ci ci davamo da fare per la ricostruzione. In molti cercavano  lavoro”. La Fiat non era ancora il serbatoio di manodopera come lo si è conosciuto negli anni ‘60”. Nei suoi racconti, tanta ricostruzione, malcontento ma anche tanta speranza. Di una vita migliore. Lentamente, il discorso si avvia al tema della guerra, all’8 settembre 1943, alla sua deportazione, in Germania. Iniziano i suoi ricordi.

La storia di una recluta: Pensiero Acutis.

“Il 10 settembre 1943 ero in Liguria, al centro reclute di Diano Marino. (Naja, che non ho fatto, e neanche il giuramento. Il mio rientro a Torino sarà il 20 agosto del 1945). Un periodo in cui ci hanno tolto molto, quasi tutto. Stenti e fame erano all’ordine del giorno. In due occasioni soltanto, nell’arco di dieci giorni, ci fu dato  un tozzo di pane nero e un pezzo di formaggio. E’ stato un viaggio bestiale, quello dell’andata. (Il ritorno, avvenne sempre per mezzo di tradotte ma ormai era un rimpatrio, del tutto diverso dall’andata. Al rientro, i primi mesi, trovai lavoretti in nero, un po’ qua e un po’ la). Ci fecero prendere la strada che va verso il Colle di Nava e fummo accolti, a metà strada da due camionette di tedeschi,  armati fino ai denti, che han cominciato a sparare, a noi, disarmati. Uno dei nostri che conosceva il tedesco parlo’ con la pattuglia chiedendo spiegazioni sul senso di quanto stava accadendo. L’ordine era di proseguire fino ad Ormea e da li poi una tradotta ci avrebbe condotti ad Alessandria dove li, gli dissero, era  stato allestito un grande campo di smistamento dove l’esercito italiano, sciolto, si sarebbe ritrovato. Abbiamo pensato: e allora,  tutti a casa. Se è  così, allora, va bene. Non era neanche il caso di scappare, poi. Perché farsi fucilare dietro se tanto poi avremmo riacquistato la nostra libertà? Eravamo   più di  duemila militari.  Una volta arrivati ad  Alessandria  (dopo aver lasciato Ormea) ci chiedevamo dove fosse quel  campo “benedetto”. La nostra domanda ottenne una risposta. Il campo non era  ad Alessandria. A Verona ne avremmo trovato uno più capiente. Era una giornata uggiosa. Pioveva. Eravamo chiusi ermeticamente nel vagone. Alcune infermiere ci porsero foglietti di carta e matita dove avremmo dovuto scrivere il nostro indirizzo. Ma quando il portellone si riaprì, eravamo in Austria. Il viaggio continuò così per una decina di giorni e quando era ora di scendere eravamo giunti “al Nord”, nei pressi di una Sandbostel,  cittadina vicino Brema, dove era stato allestito un campo di smistamento. Gli storici dissero che eravamo quattromila. Monaco di Baviera, Augsburg, Norimberga, Bamberg, le città passate durante il viaggio di Pensiero. A Sandbostel trovammo un palco dove si precipitò a parlarci un gerarca fascista.  Il suo discorso fu questo. Il Re e Badoglio erano fuggiti lasciando l’esercito allo sbando e per conservare l’onore della patria era stata costituita una Repubblica Sociale alla quale quanti si trovavano li, nel campo, a Sandbostel, dovevano aderire e ritornare a combattere con l’amico alleato tedesco, diversamente saremmo stati considerati soldati traditori e come tali trattati. Una cosa poco simpatica a mille, millecinquecento km da casa nostra. Ma dove era, casa nostra, in quel momento? Si faccia avanti chi vuole firmare, disse quel gerarca. La condizione: o di qua o di là.  Di quelle migliaia pochi si fecero avanti. A dire il vero, erano piu gli altoatesini, che si fecero avanti. Fummo “sguinzagliati” qua e la in vari campi per lavorare. In più di seicentomila militari finirono da queste parti, e 600 mila furono i no convinti. Venni spedito ad Amburgo ove restai fino al giorno del rimpatrio. Lavoro: scavare macerie prima e finito in un deposito di legname, fino al settembre del 44. Da internato militare militare diventammo internati civili come lavoratori normali, sorvegliati h 24, pagati, pero’, in marchi.”

L’infortunio e i rapporti con i cittadini tedeschi.

Il diciotto settembre del 1944 subì un infortunio al polso. Un ricordo aggiuntivo che mi accompagna da settanta anni. In quel modo non ero più abile.

“Venivo collocato a riposo. Giravo la città di Amburgo, città un po’ anarcoide. Quella città mi raccontava un pochino. Era una città giovane. Erano repubbliche militari con senso di indipendenza. Si sentivano repubbliche marinare. Non tanto tedeschi. Con la popolazione mi son sempre trovato bene. Andavo in giro, facevo commercio con i buoni tessera. Al campo poi, si divideva tutto. Poi, dopo i mesi di disperazione, arrivarono le truppe anglo canadesi a liberarci.”

Ma chi sono “gli internati”?

“La storia degli internati militari è poco conosciuta. Fin dagli inizi, in diversi ambienti, sono stati considerati come imboscati quasi come avessero scelto non come nella realtà tra prigionia o SS, ma come scelta identificata come un quieto vivere, collocandosi in una zona grigia. Tanto è vero che quando sono rientrato in Italia, col treno a Porta Susa, mentre contavo i soldi per salire sul tram zeppo di passeggeri e come mi hanno visto han cominciato a parlottare tra di loro dicendo: noi i bombardamenti,  la tessera e altro mentre loro…e mentre si dicevano queste cose mi guardavano come se io e gli altri fossimo tornati da una villeggiatura. Quanta i indifferenza, ignoranza, sospetto. Gli insegnanti dicevano di sapere poco sugli internati. Era calata la nebbia o così si voleva.  Nei libri di storia non si accenna molto agli internati, p vero. Ferruccio Maruffi,  del 1924, Presidente dei deportati politici, va sempre in giro a testimoniare. Ha scritto diversi libri ed è stato l’unico che ha difeso gli internati militari definendoli eroi. Erano circa 650 mila gli internati: se passavano con la Repubblica sociale in massa, praticamente l’esito della guerra sarebbe stato un altro, si sarebbe prolungata e forse si sarebbero scritta altre e piu copiose pagine. La sua esperienza è diversa dalla nostra, raccapriccia.  Per quanto mi riguarda, in venti mesi, l’ultima comunicazione con la famiglia era riconducibile ad una lettera del novembre del quarantaquattro speditami  dalla sorella attraverso la Croce Rossa. Poi, più nulla. Cosa trovero’? Questa era la domanda che mi accompagnava costantemente.”

 

Libro e la storia. Lo scopo.

“Come associazione pensavano di fare qualcosa che restasse impresso, andare nelle scuole era diventato riduttivo. Ero aggregato con l’archivio cinematografico della Resistenza. Con i dirigenti di quella associazione avevamo deciso di pubblicare un libro da distribuire nelle scuole. La difficoltà non consisteva nello scrivere un libro ma di trovare i fondi. Per un po’ di anni, un Generale di corpo d’armata che era ex comandate regione militare nord che aveva sposato la nostra causa ci diede una mano insieme al vice presidente Roberto Placido che ha sempre sostenuto la causa. E’ stato così pubblicato il volume seicentomila NO. La resistenza degli Internati militari italiani, kappa edizioni. La volontà è quella di distribuirlo  in tutte le biblioteche delle istituzioni scolastiche di Torino e provincia. Prima di chiudere i “battenti”. I sopravvissuti non sono poi molti. Per restituire qualcosa alle scuole, per tamponare quei buchi che ci hanno accompagnato per molto tempo. Perché in molti erano all’oscuro sulla faccenda.

Il libro si compone di un dvd o meglio sarebbe dire che è nato prima il dvd e poi il libro 600 mila no. La Resistenza degli internati militari italiani. Anche quella di Pensiero Acutis.

 

Ho cercato di ampliare il raggio della conoscenza recandomi presso l’ANCR, l’Archivio Nazionale Cinematografico della Resistenza, a Torino, in corso Valdocco 4, dove il dottor Corrado Borsa mi ha gentilmente forito ulteriori indicazioni sulla storia degli internati militari.

Il tema ha avuto un certo sviluppo a partire dalla seconda meta anni 80 grazie ad alcuni convegni e lavori di  storici. Grazie a ciò  si sono compiuti  passi avanti e decisivi nel colmare quei buchi, vuoti, accennati precedentemente dal sig. Pensiero Acutis, ma dal punto di vista divulgativo la storia degli internati militari è di fatto rimasta tra parentesi  e perciò largamente sottaciuta. I volumi attualmente in circolazione sono di storici tedeschi aventi come destinatari gli specialisti. Tali pubblicazioni  non sono usufruibili come manuali tra le mani di uno studente liceale o di un semplice curioso che abbia voglia di documentarsi. Il libro di Pensiero è uno dei primi, forse  il primo tentativo di offrire  a chi volesse un testo che pur rigoroso dal punto di vista dell’apparato informativo è  completo dal punto di vista della riproduzione di tutte le tappe che caratterizzano le vicende dell’internato in Italia. E’ un testo di facile lettura accessibile sul piano linguistico suddiviso opportunamente in modo tale che chi lo sfoglia sappia  orientarsi facilmente e trovare risposte specifiche a domande specifiche.

Come mai questo “vuoto”, dottor Borsa?Dottor Corrado Borsa, ANCR, intervistato presso i locali dell'ANCR, foto, Romano Borrelli (1)

“Per quanto riguarda gli internati militari, veniamo da un lungo silenzio non perché dell’internamento militare non si parlasse ma quando lo si faceva, se ne parlava come di una esperienza non iscritta nelle altre che hanno caratterizzato il secondo conflitto mondiale per l’Italia in  particolare dopo l’8 settembre del 1943: una cosa è la Resistenza, una cosa è la Repubblica di Salo’, una cosa è l’occupazione tedesca, una cosa è la liberazione da parte degli alleati che lentamente progredisce da Sud verso Nord, una cosa  è la prigionia militare dei tantissimi militari italiani catturati sui fronti di guerra prima dell’otto settembre del 1943, cosa diversa ancora e che è difficile trovare l’addentellato con tutto il resto è l’esperienza dell’internamento militare, cioè quella esperienza di quei tanti militari italiani che dopo  l’8 settembre e lo sbandamento dell’esercito italiano dopo la proclamazione dell’accordo con gli alleati da parte di Badoglio, sono catturati dai tedeschi”.

La storia di persone, militari che si trovano senza ordini precisi e che molto spesso con la complicità di alcuni ufficiali che li comandano e che spesso non sanno neanche loro come comportarsi. Mentre  i tedeschi, in quelle condizioni, non hanno nessuna difficoltà a catturarli e caricarli sui vagoni bestiame diretti in Germania rinchiusi poi nei lager  per gli internati, (il loro satus giuridico per scelta della Germania Hitleriana, non è quello degli altri prigionieri di  guerra è uno status particolare tra l’altro toglie loro alcune possibilità che invece usufruiscono altri prigionieri di guerra, ad esempio ricevere i pacchi e il controllo della Croce Rossa Internazionale sulle loro condizioni di salute e vita).

Perché questo status giuridico?

“Per due motivi. Da una parte la vendetta di Hitler verso gli italiani che avevano rotto l’alleanza con la Germania nazista firmando un armistizio con gli alleati e chiudendo così la guerra al fianco del la Germania nazista. Dall’altra la difficoltà di presentarsi alla Repubblica di Salò, la Repubblica fantoccio voluta da Hitler per gestire l’Italia occupata dai tedeschi con centinaia di migliaia di prigionieri italiani. La Repubblica di Salò è la nuova alleata della Germania nazista, continua la guerra a fianco dei nazista e nello stesso tempo la Germania nazista ha centinai di migliaia di prigionieri italiani. Questi non sono più prigionieri ma con magie giuridico formali  diventano internati militari. L’internamento, da una parte, ha spiegazioni politico diplomatiche come status giuridico particolare, dall’altra parte significa un peggioramento per i prigionieri e ancora sottrae  i prigionieri italiani alle convenzioni di Ginevra (del trattato che li tutela), consentendo ai tedeschi di utilizzare i soldati italiani in attività lavorative intense e soprattutto nell’ambito dell’industria bellica quando invece i prigionieri di guerra possono essere utilizzati si in attività di lavoro ma non legate direttamente alla produzione di armi. Percio’ i soldati italiani prigionieri vengono ad essere una manna per l’economia di guerra nazista in quanto come lavoratori vanno a ricoprire  i ruoli che per primi avevano ricoperto in quella economia i sovietici, anche loro, per altre ragioni, al di fuori della Convenzione di  Ginevra (quindi non tutelati).”

 

Perché non si parla di internamento militare a livello pubblico anche se gli internati militari una volta tornati, parlano della loro esperienza, e scrivono anche, come internati militari, come ad esempio è capitato con lo lo scrittore Guareschi? E rispetto alla Resistenza?

 

“Si, in effetti sono tanti i diari che pubblicati. Non se ne parla a livello pubblico perché il tema sugli internati militari costituisce una difficoltà nel suo svolgimento. Se li si pensa come di fatto e tali sono  degli oppositori al nazismo e al fascismo e apparentabili ai partigiani, questi  ultimi, dicono: “ loro sono tantissimi e sommergono quella che è una esperienza importantissima per la conquista della democrazia italiana ma per partecipanti  ridotta”. Seicentomila sono i militari internati italiani che rifiutano la collaborazione con il nazismo e il fascismo  e i partigiani al massimo duecentocinquantamila. Si potrebbe aprire così una sorta di  competizione se vogliamo, anche se oggi, sia gli internati militari da una parte, sia i partigiani dall’altra, riconoscono il denominatore comune che li unisce.  Profondamente convinto che gli internati militari italiani sono dei resistenti. Così non è stato considerato a livello pubblico nella storia, nel passato, almeno fino agli anni 90.”

Rispetto alla domanda: si tratta o meno di una resistenza?

“E’ sicuramente Resistenza anche perché alla base della esperienza terribile degli internati militari italiani più o meno terribile in alcuni casi ma comunque sempre tormentosa ma molto spesso con esiti letali con malattie che insorgono e che poi permangono a  minare  il fisico di chi ha vissuto quell’esperienza, alla base di tutto questo vi è una scelta.  A differenza di tutti gli altri prigionieri di guerra  che quando vengono catturati sono prigionieri di guerra e non possono essere considerati che tali, agli internati militari, i tedeschi, da subito, dal momento della cattura e poi successivamente e poi ancora i fascisti di Salo’, quanto visitano i campi di internamento pongono la domanda ai militari intenrati: perché non passate dalla nostra parte? Perché non continuate la guerra con noi? Dire si avrebbe significato fuoriuscire dalle terribili condizioni che la guerra pone: fame, bombardamenti, oppressione, esclusione da  lavoro forzato a cui molti sono costretti, ritornare casa,usufruire  da subito un’alimentazione che  è quella dei soldati tedeschi, abiti decenti, uniformi. Un certo numero sugli 800.000 aderiscono a queste profferte anche per disperazione. Con il loro si,  passano dall’altra parte, inserendosi così  nella Repubblica di Salo. Altri transitano solo, da qui, per arrivare ai partigiani e inserirsi poi nella Resistenza.  Altri, restano in Germania. 40 mila di loro restano in Germania, morti, per stenti, fucilazioni, bombardamenti che li colpiscono così come colpivano  i tedeschi.”

La dislocazione dei campi riservati agli internati, sul territorio della Germania, come era?

“ I campi come nel sistema di prigionia di guerra tedesco sono distribuiti in tutto l’ampio territorio. Questo per due ragioni. Il primo. Gruppi consistenti si controllano meglio di enormi gruppi concentrati in un solo punto. Secondo perché la loro distribuzione consente un utilizzo più acconcio nell’ambito dell’economia di guerra: il campo vicino la fabbrica x o y o legato all’economia agricola sono serbatoi di mano d’opera. Non erano “concentrati” con gli altri prigionieri, ma erano divisi, articolati da altri. Avevano uno status peculiare. 800 mila i prigionieri catturati e portati in Germania”.

I tedeschi catturano dopo l’8 settembre piu di un milione di italiani, poi alcuni riescono a fuggire. L’esercito italiano durante la seconda guerra mondiale mette in campo circa tre milioni e mezzo di uomini. Molti sono catturati da americani, russi, francesi, inglesi, molti rimangono sul fronte fino all’ultimo, fino al disfacimento totale dell’esercito, l’8 settembre e poi vengono catturati dai tedeschi. Altri fuggono e divengono partigiani e si attestano sulle montagne, ma anche sui balcani. In Grecia accade qualcosa di simile. Anche nei Balcani dove erano collocate le truppe italiane all’otto settembre. Che succede ai soldati italiani in queste regioni?

“I soldati italiani invece di farsi catturare dai tedeschi passano con i partigiani greci, tedeschi, albanesi a combattere in reparti, alcuni coprendosi anche di gloria con riconoscimento ampio. La cattura da parte dei tedeschi di tutti questi soldati italiani ha anche un altro intento che è quello di impedire agli italiani di ripensarci, di riorganizzare l’esercito che possa combattere efficacemente contro i tedeschi. Italiani alleati a questo punto con gli americani e inglesi e con l’esercito italiano spazzato via:  il miglior modo era di catturare l’esercito italiano e portarlo via, in Germania dove sarebbero stati utilissimi all’economia militare tedesca, in quanto i soldati tedeschi erano al fronte.”

Le scelte dei 600 mila e di Pensiero.

Quando parliamo di scelta, parliamo di individui che scelgono da se. Il governo Badoglio che si ricostituisce al Sud, prima in Puglia, poi a Salerno e poi dopo la liberazione a Roma, e, dall’altra parte il CLN costituiranno teste  che dirigeranno o contribuiranno a  organizzare, costituire forme di resistenza. Cosa è l’8 settembre? Cosa rappresenta, cosa è stato?

“L’8 settembre ne fa una pagina particolare drammatica e straordinaria un nuovo inizio per l’Italia, la scelta non avviene perché qualcuno ti dice “fa così”. Pensiero Acutis aveva 19 anni e sceglie a partire da valori che sono interiorizzati nella famiglia, in dimensioni che non sono quelle normali, politico istituzionali e percio’ è una pagina che si scrive in un contesto inimmaginabile  oggi, inseriti come siamo in un contesto in cui il cittadino è continuamente messo a  confronto con autorità democraticamente elette con responsabili, sia pur giustificati nel loro ruolo da tutte una serie di procedure.”

Chi c’era nelle caserme? E cosa succede dopo l’8 settembre ai militari? Quanti ne sono rimasti in vita, oggi?

In Italia come dappertutto, erano piene di soldati. La mancanza di ordini, di coordinamento, per quanto riguarda gli italiani. I tedeschi invece, erano” pronti” in quanto immaginavano il passaggio dell’Italia con gli americani, gli alleati e ciò ha fatto si che le caserme si svuotassero. In un attimo. Alcuni intuiscono i pericoli e riescono a scappare anche se non conoscono i dettagli della trattativa, ma i tedeschi  erano già preparati e pronti a questo passaggio. Erano uomini decisi, sapevano cosa dovevano fare e in pochi, in minoranza, in poco tempo,catturano soldati che non sanno cosa fare.  E così in mancanza di ordini, la resa. Ciascuno è solo sul cuore di quella terra in quel momento e ciascuno trova il coraggio o meno, da solo. Una pagina che fonda la nuova Italia e rende gli internati militari simili ai partigiani.”

Quanti ne sono rimasti?

” A Torino, una stima approssimativa, dice che gli internati militari non sono piu di dieci. Un migliaio erano quanti riusciti a ritornare.”

Il libro e video nasce dall’intento di restituire a quei soggetti, gli internati militari, il posto che hanno effettivamente occupato con la loro scelta drammatica che vivono nella storia dell’Italia in guerra e nella storia della rinascita. Nascita democrazia, della Repubblica che si sviluppa poi nel tempo.

L’interesse si è rivelato enorme e anche nelle scuole, ragazzi e insegnanti hanno mostrato interesse sul tema. Anche per un fatto che sembra banale ma non è marginale. 600 mila. Centinaia di famiglie italiane sono coinvolte nella vicenda degli internati, padri, madri, nonni, parenti e sempre più persone scoprono che un loro congiunto ha avuto quella esperienza e allora hanno cominciato ad interrogarsi.

E gli internati, in prima persona, hanno mai raccontato le vicende di quel periodo?

“Gli internati non parlano della loro esperienza al loro ritorno. Storie di guerra, di sofferenza, di prigionia, non piacciono. Questa è la verità. Edoardo De Filippo,  era solito dire per le storie dolorose, “non ci parlare di  queste cose” e così in  molti han continuato a portare e portano dentro questo dramma e lentamente lo silenziano. Dai diari, ricordi dei parenti escono queste domande. Il dvd e i libro vogliono essere una risposta, anche al discorso pubblico.”

Il libro è stato pubblicato nel gennaio 2014 e nasce da un film che è il prodotto di una quantità notevole di raccolte e testimonianze che l’archivio nazionale cinematografico della Resistenza ha condotto per raccogliere testimonianze di quelli che avevano vissuto  quella esperienza e che non avevano mai raccontato.

Negli archivi mancavano quasi totalmente in quanto archivi dedicati ad altre vicende, come quelle dei partigiani.

Il film nasce sulla base di due anni di lavoro e poi esce in dvd accompagnato da una opera multimediale che ha delle schede che spiegano che cosa è l’internato. Un libro dvd pensato proprio per la scuola

IL titolo del film è lo stesso del libro, “Seicentomila NO. La resistenza degli Internati militari italiani”.

Tantssimi italiani dicono no come scelta personale al nazifascismo e subiscono conseguenze pesantissime e pagano ogni giorno e per venti mesi questo loro no e poi ulteriormente. Non riconosciuti poi debitamente né dalla Germania che li ha sfruttati brutalmente né dall’Italia se non in alcuni casi con riconoscimenti simbolici con delle medagliette.

Per festeggiare insieme i 90 anni di Pensiero Acutis, presso la Sala Conferenze del Museo Diffuso di Corso Valdocco 4 a Torino, Mercoledì 17 settembre 2014 alle ore 15.30. Con gli interventi del Dottor Corrado Borsa, Gianna Montanari, Nanni Tosco.

 

[1][1] Pensiero Acutis, Stalag XA, Storia di una recluta. Rubbettino Editore, Soveria Mannelli, 2005.

La mia Torino…altra visuale. Continua.

DSC00719Le sorprese, a Torino, non terminano mai.  Passeggiando tra quella che è una zona di mercato (corso Palestro)  e l”Istituto Storico della Resistenza (corso Valdocco) si possono ammirare  palazzi e balconi incorniciati e sormontati o da una pittura o da una ceramica.

In  via Corte d’Appello alzando gli occhi al cielo si puo’ notare una ceramica seriale del ‘900 (a destra).

Mentre tra via della Consolata e corso Valdocco ti ritrovi una Madonna con Bambino e i santi Rocco e Teresa d’Avila  riconducibile al pittore Enrico Reffo religioso e pittore italianoNato a Torino nel 1831 e morto nella stessa città nel 1917. Ha diretto una scuola di scultura nel collegio Artigianelli a Torino.  Quando ci si passa sotto, si sente profumo di “Francia”, Montpellier, la cittadina dove è nato il santo (1346). E tutto cio’ apporta una voglia di ripassare storia medioevale.

Montpellier. Una cittadina giovane, situata  nel sud della Francia,  con una bellissima piazza dove seduti si puo’ gustare una buona cena e ascoltare dell’ottima musica. Di tanto in tanto si sente sferragliare uno di quei maxi tram che circolano per Torino, ma l’aspetto della cittadina è da mare. E chissà perché inerpicandosi un pochino pare davvero di vedere le lampare.  La sua stazione ferroviaria ha qualcosa  di moderno. Anche i giardini antistanti la stazione non sono niente male. Davvero giovane. Una cittadina universitaria. Un incrocio tra Lione e la Spagna. Da li Barcellona non è distante. E così Lloret de Mar, la Rimini italiana, come la chiamano in molti.  Il fatto è che passando sotto questo dipinto, non è solo l’odore francese che ti paralizza. Anche quello del Salento, con le sue feste e tradizioni riservate a quel santo ogni 16 di agosto. E che feste!!! Passando da qui sotto, ricordo di profumi e cibi gustosi. Forse è per questo che ci si passa sovente. Per assaporarne i ricordi e le radici e trattenerle.DSC00716

27 Gennaio Giorno della Memoria

DSCN0941Dachau. Campo di concentramento. Per non dimenticare. Lungo il viaggio che ci portava da Torino a Berlino, una sosta a Monaco di Baviera e poi, Dachau, per posare un fiore. Raccogliersi in un momento di preghiera. Personale. Lo stordimento, per quanto visto, l’atrocità di quello che è stato, la cattiveria dell’uomo, l’afa di quel giorno. L’uomo ridotto a bestia. Tutto, brucia dentro, ancora. Innocenti che tacciono ma che parlano alle nostre coscienze. Non ricordo per quanto tempo, all’uscita, il silenzio,  calato si impadronì di noi. Muti restammo per molto in macchina. E quel viaggio lungo ci sembro’ ancora più lungo.  Forse fino a Dresda, o Berlino. O ancora, oltre. Un viaggio, diverso, o forse uguale, a quello effettuato anni prima. In Polonia. Partiti in una giornata caldissima di inizio agosto, per la precisione, il 5, dal binario undici di Porta Nuova, con un treno speciale. Un “cappello” ci riuniva: M. Ausiliatrice, 14. Ragazze e ragazzi sconosciuti. Amicizie da costruire; ognuno una storia diversa, se 18-20 possono essere già conferire una storia “alle spalle”, proprio come uno di quei tanti zaini che ci portavamo dietro, un pezzo di cameretta che si muoveva con noi. Ragazzi  provenienti da ogni dove, da Torino e dal Piemonte: San Paolo, Rebaudengo, Valdocco-Maria Ausiliatrice, Nizza Monferrato, Asti, Alessandria...  Marsupio e passaporto a portata di mano. Oltre al già citato zaino.  Walkman, auricolari, merendine in ogni dove. Un libro, la cartina, un blocchetto, la penna,  per appuntare qualcosa, in quella lunghissima traversata europea che da lì a poco ci aspettava. Torino -Varsavia. In mezzo, altre città. Vercelli, Novara, Milano. Direzione, Auschwitz, Birkenau. Tappe inserite in altro contesto. Un giro dell’ Est. Tutto cominciò per scherzo. In uno di quei sabati primaverili, ciondolando in una zona ora trasformata e mangiata dai centri commerciali. Una ragazza, Daniela,  mi parlò di un viaggio, in estate. Poco convinto, come possono essere certe convinzioni e credenze. Più radicate altre: giustizia sociale, redistribuzione, classi sociali, opposizione, l’Università, il movimento operaio, la Fiom, le conquiste. In ogni caso, accettai. Quel viaggio “s’aveva da fare”.  Cinque agosto, ore 15. Porta Nuova. Noi che andavamo incontro alla gioventù e questa che veniva incontro a noi. In treno. La sera, dai finestrini, le Alpi, l’aria fresca notturna. Trento, Bolzano, il confine. Praga, al mattino. Nei pressi della stazione, una casa salesiana ci accolse. Per colazione e pranzo. Giro della città. La ricerca di rullini fotografici! Rullini! Come le cabine telefoniche. Repertori. Studio antropologico. Code alle cabine. Poi Varsavia. Ancora treno. Questo nome, che in molti avevamo sentito insieme a Bruxelles, a “che tempo fa”, in tv, (temperature delle città europee)  riuscivamo ad abbinarlo  solo alla neve.  Spesso non pervenute. Cracovia e tantissima Polonia. Varsavia. Il fiume. Le tende dei russi e la nostra “casa S. S.G.B.” e l’amicizia con loro. Polonia. Occhi azzurri,  a volte tristi, altre no. Capelli biondi, trecce, libri. Gente con il dolore negli occhi, ma sempre accogliente. L’università. I viali. Czestochowa e poi, Auschwitz.  Fino al giorno prima, si cantava, si scherzava, si giocava, si girava mischiandoci tra gli universitari. “Czésc” e zloty alla mano e cappello alla marinara. Cosimo, Chiara, Francesca, Elena, Teresa, Gregorio, Silvano, Gianni, Doriana,  le sorelle Cristina ed Elena, Giampiero e sua moglie Giovanna, le gemelle Michela e Stefania, e tantissimi altri, che col passare dei giorni incontravamo;  nomi e persone che col tempo la vita ti porta a perdere di vista, e quando ti vengono in mente, o li incontri, così, per caso, tutto ritorna lì. Non quel  mese trascorso, li,  in giro, “all’ Est”. Tutto ritorna a quelle atrocità che sono state e che sono ancora li e che abbiamo visto. Montagne di capelli in una stanza, stampelle, vestiti, in altre, camere a gas. Il binario. Ragazze, ragazzi, venti, venticinque anni, tutti, entrati in un modo, tornati a Torino in un altro. In treno, in quel lunghissimo viaggio del ritorno, in una giornata di fine agosto, non riuscivamo più a prendere sonno. Né seduti, né sdraiati, quei pochi che avevano una cuccetta, né in corridoio. Sdraiati sul nostro sacco a pelo. Niente occhi chiusi. Neppure dopo. A Porta Nuova, ci lasciammo, a centinaia, uniti da qualcosa di diverso. Ognuno di noi aveva preso un impegno. Non dimenticare.  Memoria. Lacrime.  L’estate che continuo’, la sera stessa. Altro treno. Direzione Salento. In uno scompartimento, con alcuni provenienti “dall’est”. Restammo ancora in silenzio. Ora, Gregorio è un medico, Cristina una bravissima insegnante, così come Giovanna, Francesca in giro per il mondo, come Chiara, dopo aver studiato a Pavia, Cosimo nella scuola, Anna, una dottoressa…Ognuno, a suo modo, nel suo mondo, ricorda quel viaggio, quel campo, quel luogo. Che tutti nella vita dovrebbero fare.

DSCN0952Quando posso, torno all’Istituto Storico della Resistenza. Una lettura, un libro, qualche fotografia. Il ricordo di quel viaggio, continua.

L’italiano, un bene comune. La lingua, un gigante dai piedi d’argilla?

….Uno dei piu’ rispettabili membri piu’ anziani del nostro club, Pavel Pavlovic Gaganov, uomo di una certa età e per di piu’ benemerito, aveva preso l’innocente abitudine di ripetere con gran calore e quasi a ogni parola: “Eh no, cari miei, a me non mi si prende per il naso” Bè, un’abitudine come un’altra. Ma un bel giorno….in modo totalmente inatteso, lo afferro’ saldamente per il naso con due dita e se lo trascino’ dietro a quel modo per due o tre passi” ( Fedor Dostoevskij, “I demoni”).

A quello, riflettevo, prima che un paio di amici “Longobardi”,  con Alboino in testa, e Gisulfo poi, sorridessero (bontà loro) del mio appuntare, alcuni passi inerenti il convegno su “La competenza dell’italiano nella trasversalità dei saperi“, a Torino, presso la Biblioteca Nazionale.  Passi, quelli appuntati,  inerenti   nessi tra storia e lingua. Una “fare”, insomma, quelli dell’interruzione, per rimanere in tema “longobardi“.  Già, i Longobardi.

Come sarebbe oggi la nostra lingua senza alcune influenze storiche? Già perchè “fare”  lezioni di storia è fare lezioni di lingua”. Quanti sono, oggi, i modi di dir, nel linguaggio comune che affondano le radici in qualche passaggio storico, di un  popolo, o forme dialettali che hanno lasciato la loro impronta modificandone così la nostra lingua? E  quali i  loro significati, oggi, come appunto il “prendere per il naso”, usato dai contadini nel prendere l’enorme anello posto sul naso dell’animale. Il mio pensiero, pero’, correva ad altro esempio. Che romanzo, “I Demoni“.  A quello pensavo durante la  “sfida” aperta, all’interno del campo da gioco della Biblioteca. Un sfida  tra classici e libri che sono un po’ come “vedere due volte la televisione”. Una sfida difficile? Forse in  “volumi”  per restare in tema, che epero’ sono di vendite, non di qualità, una svida che evoca un grande passato contro un  “volume” precario e ridotto presente, un eco incredibile, amplificato dal “ho sentito dire”, un po’ come un tempo si diceva “lo ha detto la  televisione“, così da conferire una verità granitica. Una verità con poco carattere, anzi, da triste ricordo del tempo che “una cosa ripetuta piu’ volte assume il carattere di verità”, così, tanto per farci…prendere per il naso. Meglio se a ripeterla poi, si usano pochi caratteri. Diciamo 140, “un cinguettio”. Una sfida con 60 milioni di spettatori.  Una sfida per il mondo della scuola, in maniera verticale, con nove milioni di spettatori o gioatori. Tali e tanti sono coloro che sono portatori di sogni nelle nostre aule scolastiche. Una sfida che esce dall’aula magna della Biblioteca e si irradia. Una sfida che si gioca tra classici e meno classici, dove i secondi sembrano vendere e raccontare il già detto ma mai “verificato”, non solo nel senso di  accaduto ma come scelta e voglia di veerifa dei testi, dei documenti nei nostri preziosissimi archivi.  Una sfida che coinvolge inoltre comunicazione e potere, come ampiamente illustrato da Mimmo Candido, illustre giornalista de La Stampa. Una sfida all’interno della stessa serie, perchè identiche sono le “responsabilità” tra chi scrve testi e chi scrive editoriali. sfida quindi all’intenro di un identico campo, quello l’italiano. Perchè l’italiano è un bene comune.

E chi legge un romanzo, “cosa vuole?”, “Cosa cerca?”. Già, cosa cerca?

 “Marciano i contadini e portano le scuri, qualcosa di terribile accadrà” (data della pubblicazione, nel 1861, del decreto sulla liberazione dei contadini)…tanto per rimanere in tema “Demoni”…era il 1861 e… riporta al 150 appena concluso, con una riflessione. Un romanzo, un buon romanzo, è popolare e coinvolge piu’ strati di popolazione, di estrazione diversa. E forse la lettura delle sue pagine ci potrebbe prospettare un mondo diverso, migliore, magari di giustizia sociale. Un romanzo ci “trattiene”, è vita.  E chissà perchè, mi viene in mente un libro, “La cura” di J. Tronto, forse per amore, che è poco, nei confronti dei libri.Un romanzo ha la forza di raccontarci storie sociali, inserirci in  solchi già tracciati da altri, ci fa battere il cuore, ci porta al recupero delle “e”, molto meglio delle i. Ah, i Demoni, che romanzo. E i Promessi Sposi, poi, del grande Manzoni, con la sua struttura. E poi Montale e ancora Fenoglio…….già, ma, come sta l’italiano, oggi? E’ un gigante dai piedi d’argilla? Parrebbe di si. Oggi, un presente  dal terreno “argilloso” ma un passato prepotente, “classico”. E forse a nulla valgono alcuni dati, positivi, come l’incremento delle presenze all’interno delle biblioteche, se ci si reca solo per avere un luogo dove studiare o ripassare, magari con testi portati da casa. Percentuale impressionante, quella che ci attesta che il 71% di chi legge un testo non riesce a spiegarne a terzi il contenuto. L’Ocse, alcuni mesi fa, ci rendeva noto che sulla base di una classifica inerente la condizione educativa, basata sulla somministrazione di un questionario, la lettura di un testo, un giornale, l’Italia occupava il penultimo posto fra una trentina di paesi industrializzati. Fanalino di coda, il Portogallo. Sulla base di quel dato, espresso in percentuale, circa 39 milioni di italiani (68,2%, percentuale comprendente gli analfabeti totali, cittadini privi di qualsiasi titolo di studio e quelli che hanno ottenuto la licenza elementare e media inferiore. Ricordiamo che l’Istat considera tali, analfabeti, solo coloro che si autodefiniscono in uel modo). Percentuale impressionante il basso numero di coloro che leggono un solo un libro in un anno. Eppure, biblioteche, archivi, ci raccontano, ci  narrano, ci donano parole come acqua di fonte. La prepotenza della tv negli ultimi venti anni è davvero impressionante. Anche se meno impressionanti risultano essere le ore dedicate ai programmi di approfondimento culturali.  Troppe” i” (intenet, inglese, e sicuramente meno imprese, delocalizzate o chiuse a vantaggio di speculazioni finanziarie)  e meno “e”, come emozioni? Probabilmente meno “e”, in un mondo davvero globale, dove si puo’ essere in ogni dove e nello stesso tempo, essere davvero soli. Avere migliaia di contatti su facebook, twittare, utilizzare blog, “possedere” una biblioteca immensa, su di uno schermo, senza dover uscire di casa e non aver mai davvero sentito il profumo di un documento, di un libro, di una rivista….forse questo rende d’argilla i piedi di questo gigante, che si chiama lingua; e allora scopriamo che la polarizzazione tra chi conosce e chi no, tra chi detiene il potere e chi no è  ancora viva e attuale, ora come nel 1969  quando “l’operaio conosce 300 parole, il padrone 1000, per questo lui è il padrone” (Dario Fo). Forse davvero sarebbe il caso di riappriopiarci di quei km e km rimasti inesplorati e che si chiamano biblioteche, archivi, dove si conserva la memoria, il sapere. Penso all’Istituto storico della Resistenza di Torino, che rischia la chiusura, e non possiamo permettercelo. E forse davvero bisognerebbe cominciare a smettere di leggere due volte la televisione, ovvero dare importanza e attenzione a libri poco “edificanti” e, sostengo io,  fogliettini in distrubuzione presso le fermate degli autobus o metropolitane. Buoni per alcuni, per farne parole crociate e sapere qualcosa sul grande fratello.E per continuare una tradizione che “3 + 2 fa davvero zero?”…anzi, come dicono gli studiosi di pedagogia sperimentale, “meno cinque?”, ovvero il principio in base al quale in età adulta si regredisce di cinque anni rispetto ai massimi livelli di competenze giunti nell’istruzione scolastica formale. Se consideriamo “le colpe”, direbbe Andrea Bajani, … di una riforma a….crediti e,  sulla classifica degli investimenti in istruzione poi…: Italia terzultima tra i sei ultimi Paesi in rapporto agli investimenti.

La vita o è stile o è errore

Le notizie di questi ultimi giorni sono varie e molte di esse mi hanno lasciato perplesso. Comincio col ricordare un uomo di settanta anni circa, di Milano, che aiutava i viaggiatori in partenza o in arrivo alla stazione Centrale milanese, a trasportare i loro colli; non era un facchino nè tantomeno chiedeva elemosina: semplicemente aiutava, stava poi al buon cuore della gente lasciargli qualcosa. La stazione era la sua dimora; è morto, alcuni giorni fa, senza fare rumore, in solitudine, in povertà, ma avendo conservato fino all’ultimo la sua dignità. Così come mi ha colpito la notizia che in una Chiesa, all’interno del presepe mancasse Gesù Bambino, o meglio, c’era ma era poco discosto. C’era, ma a volte non lo si vuole, non lo si vuole vedere perchè incarna la povertà, o il diverso, ed esattamente come tanti anni fa le situazioni di disagio non le vogliamo vedere. Sui tram o bus ho visto tantissime persone con abiti normali, non griffati; e penso a come sia veramente squallido sentir dire che “bisogna comprare” a tutti i costi, per rimettere in moto l’economia. Vedo tantissime persone che forse non comprano ma mantengono la propria dignità. A volte mi da tristezza sapere, anche, di aver comprato un paio di maglioni pensando che molti non hanno la medesima possibilità, in questo periodo di ristrettezze; contrariamente a quanto accadde nel 2001 o nel 1990, quel periodo, durò sei oppure otto mesi, mentre ora qualcuno pronostica di più. L’altro giorno parlavo con Marisa Sacco, all’Istituto storico della Resistenza di Torino e mi ricordava episodi del periodo della Resistenza, quando circolare per Torino in bicicletta era vietato. Mi ricordava di quanta vergogna avesse provato nel “rubare” una bicicletta, salvo poi riportarla al proprietario tempo dopo o quanta vergogna provasse nell’aver mangiato “della polenta” senza essere stata invitata. La vergogna…….Parole e ricordi che fanno riflettere.
Un’ultima notizia di questi giorni è che probabilmente un altro pezzo di un partito della Rifondazione Comunista vorrà “uscire”, presumibilmente dal partito. Anche “vendere” pane ad un euro, secondo alcuni non va bene, non è sufficiente. Cosa andrà bene oggi, in questa società? Provare a fare cose concrete come alleviare in parte il carovita o accettare che tutto ci scivoli? Penso convenga provare, col nostro stile, mantenendo la nostra dignità, dando così esempio agli altri.
Come diceva Arpino, la vita o è stile, o è errore.

Giovanni Arpino
Giovanni Arpino

Evento a Sorpresa e Manifesto Day

Oggi alle ore 12,30 presso l’Istituto Storico della Resistenza di Torino  c’è stata una festa a sorpresa per  la presentazione di un libro di una partigiana Marisa Sacco, attiva nell’Istituto, dal Titolo “La pelliccia di agnello bianco“, con  sottotitolo, la “Gioventù d’azione nella Resistenza” Edizioni Seb 27. La copertina del libro ha come sfondo una foto delle Langhe. La diretta interessata poco o nulla  sapeva di questa festa.

Ho partecipato all’evento sorpresa assieme cinquantina di persone.

Più in là spero di trovar modo di approfondire la conoscenza del libro e di condividere con Voi le mie impressioni.

Stamattina puntualmente, in edicola, ho acquistato una copia del Manifesto aderendo a Il Manifesto Day. Di seguito una fotografia realizzata con mezzi artigianali: io assieme all’edicolante.

Romano assieme all'edicolante