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Terza prova

All’angolo del corso Principe Oddone,    proprio dove fino ad una decina di anni fa sferragliava il regionale per Milano,  (appena “uscito” sbuffando dalla pancia di piazza Statuto o in procinto di immettersi nelle viscere,  lasciandosi alle spalle,  nell’ordine,  a sinistra una farmacia,  una pasticceria,  un oratorio,  una scuola con tanto Cuore),   il semaforo rilancia le sue luci e blocca il fluire delle auto in questa autostrada urbana che da Barriera di Milano giunge  al Poli.  Al rosso si fermano le auto e scatta la ragazza, tra le macchine che stazionano, lei, tutta treccioline munita di tre birilli,   si esibisce ruotando il corpo,  felice e sorridente nell’essere osservata per una manciata di secondi: il birillo rosso è   la prima prova, ed e’ andata, alle spalle dei suoi capelli, quello verde,  la seconda, pure,(con sensi di colpa di sua madre,  dalle braccia lunghe e denti ancor piu),   il bianco, la terza la proverà  e la lancerà tra i banchi,  lunedì mattina,  cioè, oggi – ora.  Al momento,  sul banco si tace, e si lascia parlare la  memoria su appunti,  schemi,  libri,  mentre trionfa la sua biro sul foglio bianco;  presto afferma che si esibirà in un colloquio,  aperto da una tesina,  in prossimità  di essere pensionata,  senza quote e senza scalone. Anche il suo e’ un “lavoro”, dal titolo molto impegnativo e interessante: “Dal lavoro al nuovo concetto di lavoro”. Terminata la presentazione, la scuola la licenzierà.  O lo licenziera’. Termine incontrato chissa’ quante volte nel suo lavoro di studentessa. O studente.  Dopo cinque anni… Poi cercherà davvero un nuovo lavoro. Senza concetto. Con tanta speranza.  Tra curriculum,  encicliche e Marx…

Storie torinesi

Foto, Romano Borrelli. Torino dai CappucciniL’acqua del fiume scorre, lentamente. Oggi, è estate. Ma è anche ieri. Un uomo, in compagnia del suo cane, braccia appoggiate sul parapetto del lungo- fiume lo osserva, o meglio, osserva entrambi, levriero e acque,  con quel lento dondolio mentre si  infrangono su di un punto, per tornare poi a correre, velocemente, per riprendere il loro viaggio fino alla destinazione finale, il grande mare che le accogliera’ Con generosita’, come ogni donna il suo uomo. Sento la necessita’, il desiderio di s rivere, di appuntare velocemente qualcosa, in una sorta di atto egoistico che mi separi momentaneamente dal resto. Una voce dal di dentro, che mi impone di “disegnare” stanghette corsive, riccioli di lettere che comporranno pensieri, pronti a navigare, tra gli altri, privi di identita’. O forse si. Nella citta’ della Mole, ciascuno di noi ne avrebbe una tutta sua, da svelare. Di storia. Ma la voce dell’intimo, la stessa che porta a scrivere impone cosa e quanto scrivere. Fiume, spartiacque di quanto poteva essere e no, con le “scelte non fatte”, lavori, amori, mancari, non consumati. Ripongo in soffitta i pensieri e  osservo l’uomo, impercettibilmente muove una matita, stretta tra le sue dita che nel gioco di quella danza che crea imprime un disegno, e forse pensa a qualche storia fissandola sopra un pezzo di carta. La grafite compone. Lentamente nasce qualcosa. Lui osserva  il fiume, occhi semichiusi che immediatamente si posano sul foglio. E’ veloce.  Il foglio è lo specchio di quanto sta accadendo in un raggio d’azione, limitato.  Almeno ” fino a Superga”. O forse non così in alto, ma molto più indietro. Almeno di 65 anni. Un bel colpo d’occhio. Questa parentesi e questo paesaggio. Qualche gabbiano si posa sull’acqua. Il  cane, ai suoi piedi, riposa. Chissà quante volte ha dovuto aspettare la conclusione di un  “prodotto” da grafite. Difatti, nel giro di  poco arriva la conclusione. Il disegno è bello. E’ un bozzetto di quello che diventerà  un giorno. Un quadro. Osservo lo specchio. Poco distante da qui. E’ oggi in un insieme di ieri avvolti in un pezzo di carta. L’aria è pulita. Si sente profumo di caffè. Una rapida occhiata, prima di andar via. Un pensiero alle vacanze, imminenti.  Al mare, al sole, al caffè Quarta, al pasticciotto salentino alle cose buone del Sud e alle vacanze imminenti. E a quanto amore contengano tutte queste cose messe insieme con il loro profumo che emanano quando provi a scartarli e facendo cosa gradita ne condividi i gusti. “Ne vuoi?” Torno al “qui ed ora”. Provo a muovermi, il signore, attento a tutti i movimenti, percepisce  il mio. Un impercettibile scatto gli aveva dato la sensazione che mi stessi muovendo. Prova a chiedere il mio giudizio sullo schizzo. Lo trovo bellissimo. Mi dice: “Sa, questa mattina mi sono svegliato con le stesse emozioni di tantissimi anni fa. Avevo voglia di aria, di libertà, di evasione. Torino all’epoca non era inquinata. Era estate, proprio come oggi.  Che ho 77 anni.  Ero giovane. Forse sono venuto a incontrarmi. Quando sentì quella voglia, quel desiderio di libertà, ne avevo 12 o 13. Mi posai nello stesso posto  dove sono ora. E feci uno schizzo come sto facendo ora. Lo confronterò a casa, con quello appena sarò tornato a casa“. Poi chiama il suo cane. E’ ora di tornare. A casa. Mi chiede se mi piacciono gli animali. Cominciamo a parlare di cani e gatti. Lui mi parla di sensibilità e di anime pure e belle.  Come gli animali. Ha gli occhi lucidi, quando mi parla. Il suo cane si chiama Teodoro. Mi spiega l’origine e il significato. E’ un bellissimo levriero, marroncino.  Il signore possiede una nobiltà d’animo d’altri tempi. Mi parla ancora, di bene, di qualcosa di profondo. Accenna a Dio. Ripiega lentamente il foglio, ma faccio ancora in tempo a guardare lo schizzo, il disegno. E’ un’opera d’arte, a mio modo di vedere. Lo ripiega e lo mette via. Saluta garbatamente, con dolcezza. Rimarca ancora il suo amore per gli animali e ricorda di quanto un gatto, curato e adottato gli abbia cambiato molto, rispetto all’approccio iniziale. “Gli animali avvicinano agli uomini, a Dio.” Si congeda. Ognuno riprende la propria strada, il proprio cammino. Mi volto e ripenso a quel disegno,  a quella mano mentre tratteggiava, al suo amore, per gli uomini, per gli animali. Chissà quanta storia avrà scritto e avrà contribuito a farne scrivere. Ritorna il profumo di caffè. O forse non se ne era mai andato.  Lentamente riprendo il sentiero del ritorno.  Mi giro e rifletto: quell’uomo aveva Testa nelle mani e Testa lo aveva nelle sue mani.  E cuore. Una bella storia torinese in una città dove ciascuno nel proprio cuore ha la sua Carmensita. All’ombra della Mole. E di un cuore. E mentre torni a ripensare alle vacanze imminenti, al pasticciotto, al Salento, ti giri e pensi che la bellezza di questa citta’e’anche qulla di incontrare un uomo nello stesso posto dove era 65 anni prima a disegnare quell’identico soggetto spinto dalla stessa emozione di quando aveva 12 anni affacciatosi appena sul fiume della vita e che alla fine del suo lavoro ti domanda:ti gusta? E da quel momento una canzomcina si impadronisce di te e cominci a cantare Carmencita…

Ps. Non solo ho rivisto il carosello, ma anche il papà di quello specifico carosello. Chissà se stava inventando una nuova storia per un carosello di domani.

Quando “la porta nel cuore”

Cuore di Torino. La porta nel cuore. Foto Romano BorrelliOgni città possiede una, cinque, dieci porte. Forse più. Di ogni tipo. Dal monumento, al mercato, alla stazione ferroviaria. Porta Palazzo, Porte Palatine, Porta Nuova, Porta Susa. Porta Portese, Porta Garibaldi… Ma diciamoci la verità: la bellezza di quando “la porta nel cuore” è davvero una sensazione unica, personale, indescrivibile per quanto la si gridi e la si esterni. Identica cosa, per la par condicio, quando “lo porta nel cuore.”  Forse complice  il fatto che siamo alle porte dell’estate tutto “calza” a pennello per scrivere, descrive, disegnare nel migliore dei modi la situazione.  Espadrillas ai piedi e “la porta” nel cuore ovunque. Tra pochi giorni il rompete le righe nelle scuole sarà quasi totale. Con l’eccezione dell’appendice esami. Una piccola coda. Un’altra “porta” d’accesso, per l’università. ”  A proposito di scuola. Qui, “La porta nel cuore” è più  evidente. Una certa complicità e qualche abbondante risata descrive la grande opera d’arte fin dal suo fiorire. Via vai continuo, al pari di via Roma o via Garibaldi. Il corridoio, il cuore del cuore. Corta o lunga, la strada da fare, basterà lasciarlo camminare, il cuore. E’ la grande  “questione” del cuore. E anche di scarpe, quando la strada è lunga.  L’estate è alle porte. Quando “la porta nel cuore” è sempre estate.

 

Ps. Quando “la porta nel cuore”  non e’ il mansionario che impone di portare-accompagnare la puoooooortaaaa, ma e’ il cuore che “sente di portare la puoooooorta”. A scuola quando “la puoooorta nel cuore entra  “e’davvero di classe. Qualche professoressa bisbiglia:”e’ proprio tanto carino. Stanno bene insieme”.Speriamo non la chiudano, in questo caso, e che di qui al termine delle lezioni portino un bel po’ di sole in classe”. Mani nelle mano e capelli che rimbalzano sulle spalle ad ogni incedere”. Anche dovesse dirlo il mansionario qualcuno vigilera’ ugualmente “la puooooooortaaaa”. Lasciamola aperta, questa volta.

Scarpe Espadrillas. Benetton. Torino. Foto Romano Borrelli

“Se lasciamo parlare oggi tanto il cuore…viene fuori la verità”

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“Se lasciamo parlare oggi tanto il cuore…viene fuori la verità”…incuriosito da questa scritta, nel centro di Torino, mi soffermo per un po’. A pensarci su. A riflettere. A provare ad immaginare. Chi e cosa. Chi lo ha scritto e a chi e cosa voleva comunicare. Rifletterci. Per il colore della scritta: un verde-giallo “evidenziatore”. Per il posto in cui quella frase è stata scritta. Tra due paletti, privati  della “catena di congiunzione”, che un tempo li univa, così come il cuore lega o legava due persone. E forse, il posto in cui è stato scritto non è a “caso”.  Ma voluto,  e forse cercato. Penso sia stata scritta proprio lì, di proposito. All’ombra di due paletti, non più uniti, ma distanti e vicini allo stesso tempo. Distanziati. Fermi. Immobili. Due colonne in miniatura,  come due persone. Cosa li univa prima? Cosa simboleggiava quella catena che ora è stata dissolta? Dissolta: meglio ora, o meglio prima? Comunicavano meglio prima o ora? E la costruzione di un sogno, del loro, sogno? Due amori, due distanze. Due città. Andata e ritorno. Un viaggio. Incomprensione, comprensione dei pensieri sottili della psiche umana. Un messaggio, prima di un esame. Magari di psicologia. O un esame di vita.  Un messaggio che ci “evidenzia” una  dissoluzione dei ruoli  raggiunta per vivere meglio la propria vita, secondo le proprie scelte,  piuttosto che per  le aspettative e i ruoli imposti. Una “via” per diventare “corso” e fase di vita. Per due, al fine di diventare due sé distinti. Già. Corsi. Di vita. Poco distante da questo messaggio scritto con l’evidenziatore, la panchina di un tempo, innevata. Una montagna di neve. Cuori, neve, notti bianche, frasi, parole appese su “stendi biancheria” di  carta, lasciate ad “asciugare”, dal tempo che passa. Altre parole, altri pensieri non “asciugheranno” mai, perchè scritte dal cuore. Col cuore. Volutamente scritta lì! Quella frase. Fa pensare ad una bellissima frase trovata tra le pieghe di  uno stupendo libro: “ vorrei stendermi nuda nella ne e e attendere il disgelo” (Alice Corsi). Il disgelo. Un termine che racchiude molto dell’uomo e dei suoi rapporti. E della donna. Al riparo dalle catene di un tempo. Oggi, liberi, ma vicini. Senza catene. Perché solo privati delle catene, in amore, si riesce a promuovere una scoperta o riscoperta di sé. “Se lasciamo parlare oggi tanto il cuore… viene fuori la verità”. Due, distinti. Il disgelo. Dopo il disgelo.  Che bello quando il  cuore parla e “scrive” con il pennarello intriso nelpiù nobile  sentimento,  pensieri simili, come questo, sempre scovato tra le pieghe di quelle pagine. “Un albero verde di primavera in mezzo ad un bosco spogliato dall’inverno”. (A. Corsi). E allora, come una filastrocca, “un, due, un due. Due, uno, un due”.Un po’ come capita, da tanto tempo, sempre al centro del cuore della nostra città, per due vie, in una. O una in due. In unione. Senza fusione.  E allora, lasciamo parlare il nostro cuore…amare, un amore che non sia una prigione: lasciate piuttosto un  mare ondoso tra le due sponde delle vostre anime…, come le corde di un liuto che sono sole, anche se vibrano per la stessa musica (Gibran). La nostra città, non finisce mai di stupire. Davvero.

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San Valentino che fa scuola

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???????????????????????????????Significativo “ascoltare” e osservare gli amori in corso (amori in corso, Claudio Baglioni). In corsia. Preferenziale. Esclusivi. Una favola ad “alta velocità”, perché di A e V non si saprà mai nulla. Che viso avranno? Chi saranno?  Ma tutto ciò forse non è  molto importante. L’importante è che lo vivano.  Senza ostacoli.  Fino in fondo. Proteggendolo e proteggendosi.  A. V.  Potrebbe essere  un acronimo, “ancora voi” o, “anche voi”.  O ancora, “almeno voi”…anche se, a dire il vero, era “almeno tu, nell’universo, un punto sei…”. Almeno voi, quando passa l’amore, tenetevi per mano. In amore, non sempre tutto è…scontato. Qualcosa.

A e V, potrebbero essere centinaia di quelle coppie incontrate nel centro di Torino alla ricerca di un locale, dove poter mangiare qualcosa, a lume di candela. E i locali, erano a centinaia. Dove lei, fiore in mano, fissa i suoi occhi negli occhi di lui. Serenità e calma sotto un chiaro di luna. Piena. Sereno e calmo, l’amore. “Amore, sereno e calmo“. “Presente!” “Attento!”  “In piedi!”. Quando passa l’amore e quando entra l’amore.  Con classe. Come a scuola. Quando si entra “in due per uno”, come in certi musei, almeno per quest’oggi. O come il sabato italiano, AV. E perché non quotidianamente? E chissà quale “storia troveranno da scartare”  sotto il banco. Ognuno ha la sua. Di storia. Da scartare a “scartare”. Come un “bacetto” scartato in macchina, consumato frettolosamente. O la storia- film da “ultimo bacio”. Da vivere, raccontare, cestinare e congedare. In un angolino dei ricordi. Come dire, “l’ho amata/o, ma basta“, tanto per “scartare” una storia d’amore non corrisposta. E altri amori col tempo si “scartano” in maniera interlocutoria, come per dire, garbatamente,  “siamo diversi, restiamo nelle nostre idee, mancano i fondamentali”, come in economia.  Alludendo, quando manca il succo, ad altro.  E ancora, strani amori che, vanno e vengono. Amori scartati, vissuti e scritti sul pelo d’acqua, sulla sabbia, in cielo, in bottiglia. Scartati. “Per colpa di chi”…cantava Zucchero. A volte si ritrovano.  E per la par condicio, è bene ricordare che oggi  c’era anche chi, facendo sintesi degli amori da “scartare” sotto il banco, provava a porre  il cuore in “ferie”. Domani, si vedrà.  “Il tempo, farà la sua parte. Oggi, però,  la saracinesca resterà  abbassata”. E forse anche il cuore.

Nel cuore della “produzione“,  6 mila rose torinesi a Roma. A manifestare. Un altro tipo di amore. Ma questa era una “storia scartata” diversamente negli anni.

In ogni caso, auguri a tutti gli innamorati. E non.DSC00370

Tornata. Nel pomeriggio

DSC00166Finalmente,  a Torino, la neve annunciata, è arrivata. Nel primo pomeriggio, verso le 15, puntuale come un treno, è arrivata. Anzi, “tornata”. E puntuale mi sono precipitato, sul far della sera, sotto quel balcone. All’ultimo piano, persiane aperte, messaggio “in bottiglia” per qualcuna, sul muro ingiallito: tornata. Nel centro di Torino.   

Immaginando, chissà, qualcuno che, materializzandosi,  provasse una serenata. Perché, tornata. Perché “sfrecciata” sotto le luci, i riflettori,  il “palco” della ribalta  della nostra città. Tornata. Ad offrire pubblicamente quel ritrovo, dopo un incontro mancato, un distacco, un allontanamento, o molto più semplicemente, una breve pausa di riflessione.  Penso. Immagino. Tornata a “ricucire” un cuore, offerto, e s-offerto, donato, su basi di carta, ben presto accartocciata. Pensieri giustapposti, spazzati via, troppo presto, da un vento autunnale, poesia inconsistente, e musica stonata di qualche violino, incapaci di serenate. L’arrivo e la partenza di un treno, arrivato e ripartito troppo presto. Il vuoto di un tavolino dove fino a pochi minuti prima…e la solitudine, che da qualche fiocco diviene valanga, dolorosa, pesante e pressante, inimmaginabile; e fuori dalla stazione, chissà, un non mai detto, una “mole” di pensieri; sarà la neve, sarà la giornata, sarà chissà che il pensiero di quella scritta, sotto una finestra torinese,  va a frugare tra le righe di un passo di  Dostoevskij, la mite: “mi diressi immediatamente verso di lei e le sedetti accanto…Parliamo…sai…dì una cosa qualsiasi…e così vuoi ancora amore? amore?“. Severa meraviglia… Tornata, perché…Il pensiero,  riavvolto è andato alla storia di Diego e  Marilisa. Ho pensato fosse lei, tornata, per Diego. La speranza di vederla alla finestra, e sotto la via, in attesa,  Diego. La speranza che fosse Marilisa, con un unico bagaglio: la consapevolezza e la voglia più concreta di amare. Di raccontare. Di esporre il suo punto di vista, sulla “tesi” offerta. E invece…silenzio. Incomprensione.  E tanto rumore nel fare filosofia, di vita, con poesie, d’amore. Comprensione. Ancora.  Le luci della città, della via, illuminano quei fiocchi danzanti, che lentamente si appiccicano addosso.  Un’infinità di punti, di sospensione. Come tante virgole. “Punti” di vista  sul panorama della vita diversi, diverse, dai punti e virgola, spesso insignificanti.  Fiocchi.  Che imbiancano, come polvere di zucchero sul pandoro. Punti. Che lasciano interrotto un discorso, per poi riprenderlo.  Alla prossima “tornata”, perché, nella vita, spesso, i tornanti ti sorprendono, uno dietro l’altro, e ti avvolgono. Fiocchi che scendono, come gocce di latte, zucchero a velo. Un abbraccio, un’accoglienza. Il sentirsi protetto. Da qui sotto, una sensazione stupenda. Un bicerin e quel gusto di cioccolata che ti rimane dentro. Una cioccolata amara, molto densa. Che ti coglie al centro del Cuore di Torino. Come certe storie vissute. Imbevute di vita. Con tanto romanticismo di  città. Son sicuro che passata la nottata, anzi, la nevicata, Marilisa aprirà quella finestra.DSC00170

Un cuore di stella

DSC00095DSC00094Luna piena in cielo. Manca solo una stella.  I cuori disegnati sulla sabbia, chissà. Pero’ resistono, lì dove sono. Al proprio posto. L’acqua del monumento specchia palazzi e portici. Un’antenna  del grattacielo, poco distante da qua,  tocca la prima con un dito e finalmente, pur con i piedi per terra e  ben piantati, il secondo  ora è un gigante felice. Alcune finestre, simili a tanti occhi, sembrano sorridere. Altre sembrano pantaloni tapparella, così di modo ultimamente.  Via vai continuo per la strada, “sotto portego”. Vetrine illuminate e cartelli dei saldi ben in vista.  E sotto portego, di tanto in tanto, qualche mano dona qualcosa e un’altra accoglie. Con la firma di una stella.  Eppure da quelle mani (e da quei sorrisi) per alcuni istanti si irradiano forti caratteri di solidarietà, e fratellanza. Chi si ferma,  riceve “un cartoccio di minestra” ma non lo prende per sé. Lo raccoglie, con delicatezza, per consegnare quel pensiero a qualche conoscente, che versa in condizioni precarie: qualche anziano, la badante, il vicino di casa che fatica a mettere insieme il pranzo con la cena, e così via.  Un “cuore” di gente, oserei dire.  Come ai tempi duri di Giovannino e Margherita. O magari più recenti a noi. Come la storia di quell’impiegato, che dopo aver preso come era consuetudine, il treno locale del mattino, per essere pronto  al suono della campana, trovava sempre un sorriso, incorniciato a un bel paio di baffetti, camici, gilet e giacca di velluto. Un caffè,  al bar, non  perché ne avesse necessità o desiderio, di andarvi, quanto un modo gentile per tendere una mano, e offrire velatamente un momento di dignità, di esistenza, strappata   dalle circostanze della vita, di quell’esistenza  precaria; un cappuccino, una presenza, un qualcosa con cui ristorarsi e riaffermare se stesso, per un breve momento.   Era ben cosciente di cosa volesse dire “fare tanta strada“, in mezzo alla neve, con i due trasbordi, da quando qualche “genio“, su quella tratta, non c’era più, e qualche altro genio, non poneva in essere politiche diverse di trasporto alterative  alla gomma. Eppure erano solo 40 km di strada ferrata. A binario unico.  Possibile che ci si mettesse lo stesso tempo di percorrenza come 60 anni fa? Già, sessanta. E sessanta, quasi, erano i suoi anni, e negli anni, di racconti sotto la neve, ne aveva sentiti. Parecchi. Storie di trasbordi e di deportazione.  Del  padre. Sotto la neve. E forse proprio quei km sotto la neve, i trasbordi, e la precarietà di quella condizione, lo portavano a chiedere con tanta naturalezza: “andiamo al bar?” Che poi, lui, al bar, non è che prendesse chissà cosa. Si limitava semplicemente al suo caffè. Corto, ristretto.  Sapeva però, forse un po’ come Giovannino, che, a stomaco pieno, si ragiona e si lavora meglio. Sulla sua scrivania, un pc sempre acceso, una macchina da scrivere, dei tempi andati, a fare anche qui, un po’ di museo,   come l’altro, lì nei pressi, e pratiche circolari che circolarmente gli giravano intorno. Anche quando non era ora la trovava sempre. Per gli altri. Sempre al servizio. Un mattino, l’ultimo, prima del congedo col pendolare, guardando le montagne, in lontananza, gli disse: “Che bel panorama. Le sere d’estate, il cielo, è bellissimo. Le stelle sembrano danzare e mentre piroettano, compiono magnifici disegni. Da domani, forse, quel cielo, sarà ancora più bello, nonostante un viaggio,  di questa nostra amicizia sia giunto al termine. Il cielo sarà più completo. Un nuovo carro, sarà presente, e trainerà, da domani in poi, anche  quello dell’amicizia”. Detto questo, gli pose in dono un libro. “Neve” di Orhan Pamuk.  Una dedica e la sua firma     ne  vergava  la prima pagina: “Ogni persona ha una stella, ogni stella ha un amico e ogni persona ha qualcuno che gli somiglia, una stella simile alla sua  che si porta dentro come confidente. Con amicizia, V.”

Intanto, per alcuni minuti, con le storie, lasciamo che il cuore continui a battere.

Torino di una volta

DSC00081Talvolta, la domenica mattina, Torino ti e si risveglia. Nel passato. E si e ti nutre di passato. Basta fare quattro passi in Corso Francia, uno dei corsi più lunghi della nostra città e più alberato,  per scoprire che lì, su quel tragitto, vi era una stazione-filovia Torino Rivoli. Facile immaginare che dall’altro lato del capolinea, a Rivoli, vi era la stazione in corrispondenza del ritorno, Rivoli-Torino. Oggi, non si trova il  bus numero 36, autosnodato,  e neppure il 38. Solo un bar e nelle vicinanze una edicola.  E sul corso non transita neppure il caro e vecchio glorioso carrozzone tram 1, sostituito dalla metro automatica sotterranea. Una vecchia cabina per  foto-tessera, di quelle anni ’70-’80, buone per scattarsi una fotografia per la gloriosa carta bianca, o, negli anni, immortalarsi  in  qualche fotografia con la ragazza del tempo. Ora, insieme a quella e quelli,  gli uffici Gtt. Poi, col tempo, sono spariti i fili, poi il deposito bus Paradiso,  i bus arancioni e con essi anche Giulia,  con i suoi occhi azzurri in altri occhi, la voglia di ascoltare e di condividere, la sua borsetta e i libri di sociologia ed economia,  le ore passate a studiare a Rivoli e le passeggiate in via Piol, alla ricerca di qualche pasticceria. Su quel bus si consumavano  interminabili chiacchierate su Gorbaciov, imminente a Torino, e del Concord, passato sopra i nostri cieli, e atterrato a Caselle, qualche anno prima, nel mese di ottobre, un mese, in quell’anno, piuttosto mite. E di quei libri, si sapeva già prima. Delle lezioni universitarie. Perché ci si teneva. A lei. Non a Spencer o Keynes.  Ora, col suo trolley, si ritrova in qualche città europea. Insieme a tantissimi altri, quei laureati che partono e che creano. E oggi, sotto corso Francia, in metro, di cosa si parla? Di amori? Quali amori? Amore chi? Parafrasando un politico, dimettendosene un altro. E forse oggi, si dovrebbero dimettere altri, alla domanda, amore chi? o amore cosa? Oggi si mischia tutto, poesie di Francesco e canzoni di Battiato, musica di Matteo e sistema gratuito per mandare messaggi telefonici, poi, si gira il tutto, si mescola, e, oplà, un gran minestrone.  Poi, basta spostarsi verso la cara scuola, con un  Cuore, De Amicis e si scopre come l’entrata era per classi: Maschili e femminili. Il direttore, all’entrata, l’appello, con un megafono. L’infermeria, la bidelleria, gli stampini, ogni settimana stampati sul quaderno: A, a, come amore; B, b come bene; C, c, come cuore.. . La matita, da usare per tutta la classe prima su banchi ancora provvisti di un foro, per il calamaio. Per la penna, avevamo tempo. Quattro anni.  L’abbecedario gigante, il busto di De Amicis. Le cedole per il ritiro dei libri, dal giornalaio, il giorno successivo, il sussidiario, il libro di lettura. Il segretario che le porta, in classe. Cognome, nome, residenza. Tutti in piedi. Oggi, cosa è rimasto di classe?  E della scuola? E nella scuola?Conflitto di classe? Rapporti di classe? Classe subalterna?  In classe con classe o classe senza classe? Probabilmente Ingessati, fuori classe. A scuola.

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In attesa di Diego e Marilisa. Una storia da agorà. In piazza San Carlo

DSC00018DSC00020Continua ad appassionare la storia di Diego e Marilisa. Si discute, se ne parla, se ne scrive, si lasciano biglietti, nei pressi della Biblioteca, e di qualche altro luogo pubblico. Anche se La Stampa non ci fornisce ulteriori notizie. Pare lì, Diego,  in attesa, vestito di bianco, su di una panchina bianca, non imbiancata. Una di quelle panchine che fanno da perimetro, da cornice  ad uno dei tanti giardini torinesi, tra via Cernaia e via Pietro Micca. Un quadro, con tanti disegni. Cuori in ogni dove. Ogni tanto lo sferragliare di qualche tram risveglia quanti provano ad estraniarsi e provare a pensare: chi all’amore, chi al lavoro. Questo spicchio di città rassomiglia ad alcuni giardini parigini. E il bianco la evoca, anche per le cene, “in bianco”, nate proprio nella “ville lumiere” e adattate anche nella nostra città. Una figura maschile, bianca. Speriamo non imbiancata dall’attesa e nell’attesa di Marilisa.  Chi lo ha visto racconta che la sua mano racchiudeva una rosa, l’unica cosa colorata. Bianco, come l’amore, immacoltao. E questa storia, un po’ di purezza, a dire il vero, la passa. In attesa. Altri, sostengono diversamente: “quando una storia termina, non resta che..”attaccarsi” al tram”. Al centro di questa storia, e di questa “agorà”, per il momento in forma virtuale, in ogni caso restano loro: Diego e Marilisa. Una storia da libro Cuore. Una storia di piazza, come la torinese piazza San Carlo, che riflette, in questi giorni, e fa riflettere riflettendosi.  Come specchiarsi. O rispecchiarsi. In ogni caso, attaccarsi al tram, in questi giorni, a Torino, non è semplice. Uno dei tanti tram, ad esempio, il 13, è sdoppiato, anzi, raddoppiato, almeno in centro. Poi, il bus. E, al centro, come si sa, esiste sempre in ciascuno di noi un cuore. Che batte.

Dall’altra parte del giardino, oltre i cani che si rincorrono e qualche bimbo che gioca, qualcuno, nel decimo anniversario della scomparsa legge un libro. Di Norberto Bobbio.

Sulla e nella Mole Antonelliana (Natale a Torino)

DSCN2792DSCN2793Domenica e lunedì  (antivigilia e vigilia) di ultimi acquisti, ultimo shopping,  prima della grande festa. In molti “di fretta” col “panic Monday, (come negli Usa) principali ritardatari nei regali natalizi. Ansia da regalo. Un giro, quattro passi, per le vie del centro torinese:  via Pietro Micca, Piazza Castello, via Po, una sbirciata in via Garibaldi. La tredicesima ha preso un’altra strada, o meglio, un’altra via, per tantissimi. Percorro lentamente via Po, con le sue luminarie, a destra, via Accademia, il  primo Parlamento subalpino,  il suo Museo Egizio. Altre luminarie. Percorro ancora via Po, la Facoltà di Lettere, un’occhiata da libro Cuore dentro la Cavallerizza (con i suoi ricordi, la scuola) e poi, diritto,  fino ad arrivare al Museo del Cinema. La Mole Antonelliana è maestosa, con i suoi 167 metri. Decido di  acquistare il biglietto: cupola, ascensore panoramico e museo del cinema. Pochi istanti e sono su. Torino ai piedi di questo gigante.  Che bella Torino da quassù. La realtà  con i suoi ritmi frenetici è come sospesa. Ridiscendo. L’aria, quassù, è gelida.  Ho il biglietto anche per il museo. Nell’ampia base, una fila di poltrone rosse invita a rilassarsi.  Mi siedo, anzi, mi spalmo, su una di quelle. Osservo la cupola. Ricorda tanto la polarizzazione della società italiana. Una base di povertà ampia. I piu’ ricchi diventano ancora piu’ ricchi. La base e la stella, simboli  del giro di affari misurati in queste giornate, nella corsa agli acquisti. La stella ricorda i regali sempre piu’ costosi, quelli di lusso. Per pochi, ma mai in diminuzione, mai in cassaintegrazione. Quelli griffati, da grandi marche. La base, quelli da un euro, o giu’ di lì. Sempre sul pezzo. In fondo, quello che conta, è anche un semplice biglietto, sincero. Un augurio. Una vicinanza che continui anche gli altri 365 giorni. Ma come è composta questa base che ricorda la società attuale? Quasi il trenta per cento delle persone residenti in Italia è a rischio povertà. L’ascensore personale che avrebbe potuto, dovuto, portarmi sotto l’albero personale il contratto a tempo determinato, non è partito. Ormai non si comprende piu’ chi e perchè ha negato l’accesso.  Come per tante altre persone. Si è parlato spesso di precari, dell’Amministrazione statale, 230 mila, con contratto in scadenza al 31 dicembre: per loro, bontà “governativa”, gentile concessione:  contratto prorogabile fino al 31 luglio.  Per noi, solo illusioni. Da settembre. Ancora per quanto tempo? Non è dato sapere. Due scioperi e nulla di fatto. Penso alla percentuale delle persone che non possono permettersi una settimana di ferie, lontani da casa: 46%; penso a quanti non riescono a riscaldare adeguatamente la propria abitazione: 17%; a quanti non riescono a sostenere spese impreviste per 800 euro: 35%. Naso all’insù, verso questa cupola, le sue al, meglio, corridoi, i riservate al museo del cinema,  i manifesti di film andati, locandine (tra questi Profondo Rosso, Così ridevano,  girati a Torino, insieme a molti altri) riproposti, mai terminati. Dopo Mezzanotte. Anche prima. Mi accomodo beatamente su una di queste poltrone. Sulo schermo si proietta un film. Davanti a me, una coppia di turisti commenta il proprio.  Provo a chiedere loro alcune impressioni sulla nostra città.

Forse è stato solo un sogno, commenta lei. Una deviazione dal solito binario, della solita stazione, forse un viaggio nel tempo, come nel film di Woody Allen “Midnight in Paris“. Quelle ore sospese in una dimensione senza spazio nè tempo, per cui nel giro di poche ore ti ritrovi a Torino. Forse L’adrenalina del viaggio, pazzesca. Quella esilarante sensazione di sfondare i confini dell’abitudine per vedere cosa c’è oltre, immersi nella città. Sensazione di essere piccoli, a sentir loro, di fronte a tanta maestosità, a quei palazzi così belli, antichi, grandi, anche se è evidente una certa discrepanza fra la parte vecchia e nuova della città. Che entusiasmo poi toccare con mano il cuore pulsante di una città così grande, così attiva, così elegante…l’estetica dei monumenti e delle chiese e dei palazzi, come Palazzo Reale, la Chiesa di San Lorenzo, la Mole…è stato spettacolare!!! Sia la panoramica notturna da cui si puo’ ammirare tutta la città distesa e la Gran Madre e il monte dei Cappuccini.Il Museo del Cinema è stato dolce, appassionante, una novità. Come il circolo dei lettori, l’ambiente che ho sempre sognato…perchè i libri, come il cinema, sono il rifugio dei sognatori.