Torino, 5 dicembre 2014. Atrio di Torino Porta Nuova. Immobile, davanti a questo albero, in attesa di un qualche evento o semplicemente di una normalissima voce capace di ridestarci da quell’ avvitamento. Poche lettere e molte persone si celano dietro quelle scritture che hanno “scritturato” qualcuno o qualcosa o si apprestavano a scritturare. O meglio, ne chiedono l’intercessione, a Qualcuno, a Babbo Natale o magari a qualcun* che si trova li, per una “scrittura”. La voce, capace di ridestarmi da quel torpore, stentava ad arrivare, sia da fuori, che ne so, magari l’annuncio di un treno in arrivo, in partenza, un ritardo, il “materiale” non pronto, un cambio di binario per una partenza, sia dal di dentro, una presa di coscienza che li,”stazionavo” soltanto. Per riavvolgere un anno di film. O il film di un anno. Nulla. La “sveglia”, o il risveglio, me la forniscono i miei occhi. Una delle due scarpe era slacciata e tale continuava ad essere. Il tutto, o il così poco, era così da tempo, forse tanto, forse poco, mentre pensavo ai “lacci” miei. Mi chino e metto in ordine quel che divideva la mia storia, ammortizzata dalle scarpe, e quella del manto stradale, che conteneva storie di tutti, tanti, di una moltitudine. Di oggi e di ieri. Di lacci miei che si intrecciavano ad altri. Lacci. Davanti a questo albero, sempre più magro, probabilmente la recessione si è fatta sentire anche per gli alberi, non riproponevo i soliti auspici, i soliti sogni. Elencavo quello raggiunto, e quello quasi raggiunto, anche con poca intesa. Un bar, una stazione, e caffè, della stazione, un saluto, che pareva un arrivederci, un rientro e poche altre partenze. Un caffè, quello, molto espresso e parecchio amaro. Un fischio, le porte chiuse e geografia da ripetere. Molte le ripartenze. Storia e storie tra gli spartiti, in continua oscillazione con parole e musica (anche se, meglio, musica e parole) da violoncello. In cima a questo albero che profuma di caffè espresso, oggi molto corretto, metterei volentieri questo blog che ha raggiunto l’età giusta viaggiare in “prima classe”: sei anni, grembiule dello storico della domenica e qualche fiocco. Una sigla, di tanto in tanto, tra un “pezzo” e l’altro. Dopo aver accarezzato, albero e idea, recupero la strada del ritorno. Diretto verso altre classi, o meglio, tra altre e alte classi. Prima che la campanella suoni, recupero una sedia e un libro, appena comprato. Uno studente si avvicina. Ha la disinvoltura di chi voglia chiedere un gesso. Così, come fanno i ragazzi, per allungare i tempi di percorrenza di qualche piastrella, tra l’uscita e il rientro. In classe. Le formule, possono aspettare. Penso subito voglia chiedermi una penna, di quelle che fanno “clac-clac”, che, anche se è presto, magari vuole sentire addosso la tensione da maturità. Con qualche centinaia di giorni di anticipo. Invece vuol sapere cosa leggo. Vorrei rispondergli semplicemente che quello che leggo sono “lacci miei”. Non lo faccio, semplicemente perché ogun* ha i suoi, di lacci. E io ho questo libro, tra le mani e tra una esistenza come tante, intrisa di lacci, un libro bellissimo, che ha per titolo, per l’appunto “Lacci”. Era da un po’ che la mia curiosità si muoveva tra lacci altrui. Da qualche giorno, a seconda delle possibilità, sfogliavo una pagina, due righe, dieci righe, di quelle “valanghe” senza preavviso e che di tanto in tanto esplodono nella testa. Mi aggiravo furtivamente tra le pieghe del libro e della libreria, sotto gli occhi vigili di altri lettori. Ognuno immerso tra i lacci propri e vogliosi di “farsi” anche quelli altrui, tra pieghe altre. Un vicino, potenziale compratore e lettore, mi fissa negli occhi e mi dice: “Potessi ne cederei volentieri qualcuno in prestito, e magari riprendermeli “sciolti”. Sempre isoliti “lacci”: imperfetti, improbabili, ma intrecciat meglio. Alla fine, per tornare all’oggi, cedo. Come tante altre volte. Difficile essere orgogliosi ed egoisti. Con i libri. So che lascero’ volentieri solo i “Lacci”, di Domenico Starnone (Einaudi). A cosa penso? Che cosa lasciamo quando lasciamo qualcuno? Che cosa quando qualcuno ci lascia? Bhe, lasciatemelo dire, “lacci miei”. E poi…..
Una domanda post: maquanto devono essere allaciati questi benedetti lacci? Stretti stretti, da lasciarne il segno come un marchio nella carne, stretti a meta’, allentati, una si e l’altro no o uno si e l’altra no, evitati per trasformare il tutto a mo’ di ciabatte, eliminati del tutto per lasciar posto alle cerniere con un colpo di zip….come?
Ps. Il mio pensiero volge al 6 dicembre 2007…Li ricordiamo sempre. Tutta la città, unita, li ricorda.