
Il caffè, quel caffè, era il nostro rifugio. La piazza e la stazione nella quale aspettavamo un treno, il nostro treno. Due luoghi, due spazi, fulcro della vita culturale. Non era la nostra vita quotidiana, ma ci provavamo, a farla diventare. Nostra. In tutti e due i luoghi, i libri ci accompagnavano. Sempre. Ci aiutavano nella nostra libertà. Loro incontravano noi e noi incontravamo loro. E ogni incontro, un’esperienza unica. La loro con la nostra. La nostra e la loro. Con loro in nostra compagnia, superavamo confini e saltavamo angoli che la realtà ci costringeva o meglio, ci costringeva a vivere in luoghi angusti, e lavorare con un “abito” non nostro. Ma fortunatamente, come lo storico della domenica, ci scrollavamo di dosso molto, del passato, dall’ultimo incontro a quello nuovo. Torino era nostra. Piazza Castello, al pomeriggio. In lungo e in largo. Mano nella mano. Avevamo vinto lo scudetto. Il nostro. Una giornata di festa e tripudio. Festa, cori, trombe e bandiere. Uno scudetto appuntato sul petto, al termine di un campionato. Era l’andata. Il ritorno sarebbe stato più duro. Come tutti i ritorni. Una trasferta lunga, con il fattore campo che certo non aiutava. Ma intanto, quello, era il nostro scudetto. Laureatici campioni, in piazza, a festeggiare, come dopo un esame. In un campionato a due. Lo scudetto, quello nostro, era l’abbraccio e le mani intrecciate. Le trombe, due cuori esultanti. La bandiera era un enorme foglio bianco sul quale scrivere la storia. Il tamburo, il nostro cuore. Un cuore solo, fuso. La nostra storia. Piazza Castello, per l’occasione, e per tutte quelle a venire, diventava, o meglio, ridiventava la Medal Plaza. E noi, orgogliosi, la appuntavamo, sul nostro petto. Da li, ai Cappuccini, occhi gettati verso l’alto e da qui, a Superga. La città era nostra. Ai nostri piedi. Il ritorno, lento ma veloce. Uno sguardo all’orologio. Il tempo passa. Troppo velocemente. La riconquista della Piazza. La scelta del caffè, del bar, per l’aperitivo. Cosa che avremmo ricordato, il giorno dopo, in stazione, prima del congedo. Due mani, domani, formeranno un cuore. L’umor acqueo, fornirà l’inchiostro. Le dita, saranno i tasti, per scrivere qualcosa che non si puo’ dire in poco tempo, in pochi secondi. Quel tamburo continuava ad emettere lo stesso suono. A distanza. Di tempo. Il treno, velocemente veniva inghiottito dalla galleria cittadina. Cominciava il girone di ritorno. Tum, tum, tum…il cuore batteva il suo tempo e questo non ne rallentava mai quel battito.
Oggi, come allora, piazza Castello. Sul porfido, la lettera 28, batte gli ultimi tasti. Ultime lettere. Ancora una lettera. Per continuare. A sognare. Il foglio bianco, la nostra bandiera, ormai è divenuto testo scritto. Le dita, le mani, solo apparentemente si distaccano. Le dita, battono e scrivono una storia. Questa piazza sembra, a quest’ora, ha le sembianze di un bel visino. Occhiali, frangetta e occhi neri, sono quelli di Marina, che così “ricama” la sua storia. Io l’ascolto e la regalo ai lettori.
“Una coppia porta a spasso il suo segreto, nello spazio aperto di Piazza Castello, che induce a prendere fiato per fare un profondo respiro, per un lungo sospiro. Aria di libertà, il sole ravviva i colori e definisce i contorni, la temperatura, mite, rilassa i muscoli (compreso il cuore). Mi piace pensare che quelle mani non siano perfettamente aderenti, che non ci sia il vuoto fra di esse, ma che contengano il frutto dell’amore dei due, il frutto che si portano a spasso nascondendone il sapore al pubblico pur rivelandone la bellezza. E’ questa delicata esibizione di un sentimento, rispettosa del confine fra la dimensione pubblica e privata dello stesso, che suscita in me tenerezza. Strappandomi un sorriso e un pensiero, su quell’avanzare nella piazza come nella vita in due, distinti e diversi, ma l’uno accanto all’altro. Lui non colma le mancanze di lei, lei non colma le mancanze di lui, ma lo attraversano insieme, il vuoto che ognuno si porta dentro. Stando accanto. Anche quando l’amore è attesa e manca la routine per cui si conservano come reliquie oggetti, foto, libri che oggettivano la presenza, l’assenza, di lui o di lei. Basta poco per ritagliarsi un momento di poesia nella giornata. Alzo gli occhi al cielo, lo stesso cielo. Calpesto la stessa terra. E mentre le due mani intrecciate spariscono all’orizzonte in me rimane un retrogusto dolce, di qualcosa che fu, di tutto l’amore divorato, mai assaporato, mai restituito. Vita, torna da me, cavalcando la primavera.”
È bella questa storia di marina,che tu vuoi raccontare ai tuoi lettori…..molto bella!……però triste, molto triste!….magari sono io a trovarla triste, mi fa pensare ad un amore che non c’è più….che non ha avuto il tempo di crescere!……..la possibilità di crescere!……..forse…….non so il motivo,ma mi rattrista……è comunque una storia molto bella! ……non è detto che una storia triste non sia anche una storia bella!………..ciao romano! Irene
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Irene, non hai torto, in parte è anche una storia triste, perchè parla di un mancato incontro, di tempi che non combaciano, di ostacoli al pieno vivere.Tuttavia, l’immagine della coppia che avanza porta una ventata di vita nell’esistenza tormentata di Marina, un soffio di speranza.
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Questo inverno avevo trovato una poesia, “portami il tramonto in una tazza”. Mi era piaciuta molto, tantissimo.,forse perche, anche io, ci provavo a portarlo, quando d’ inverno, i tramonti non sono i migliori e aspetti che arrivi….. Forse perche’ in amore, bisognerebbe provare a portarlo, a consegnarlo, in una tazza, ogni volta che ci si incontra. Io non penso che ci siano mancati incontri, piuttosto penso che alcune volte siamo talmente miseri o meschini, che anche quando ce lo portano, non ce ne accorgiamo, e allora, lo buttiamo, il tramonto, dalla tazza sulla piazza. E poi, ci lamentiamo e ammiriamo con nostalgia quello che si bevono altri. Avolte diamo per scontato tutto, che magari quell’ amore potrmmo riceverlo infinite volte, e non lo viviamo, con la gista delicatezza e rispetto di chi ce lo porta. E un tramonto, nellampiazza, significa portare molto di piu. Ognuno di noi e’una piccola civilta’ eretta sulle rovine di un’ infinita’ di civilta’ precedenti, ma con i propri distinti concetti di cosa e’ bello e di cosa e’ accettabile, i quali, noi stessi in genere non soddisfiamo pur sforzandoci di rispettare…e cosa portiamo nell’incontro con il nostro tramonto nella tazza?che le” nostre civilta” sono talmente diverse che a volte qualcuno non lo vede, il tramnto, non lo apprezza enon ha visto, le rovine altrui ma conosce solo le proprie. Siamo cei segreti, gli uni per gli altri, con lingue diverse….Capita di portare un tramonto in una tazza e di vederselo rovesciare, per poco o nulla…..e nullita’, ma, ahime, ahonoi, ben accetto, quel nulla, perche parlano la stessa lingua, quella della menzogna, della superficialita, degli occhi chiusi e cuore spento ad altre civilta. Il tramonto bisognerebbe continuare a portarlo a chi ti dice “io sono malata d’amore” (cantico dei cantici) perche l’amore e’sacro, come la grazia.Mentre la disonesta’ e’ disonesta ed e’ umiliante farsi scoprire, specialmente quando non si ha altra scelta che persistere e tirare avanti con l’ inganno quanto piu possibile, sotto l’ occhio stesso dell’ indignazione. Quando ti portano un tramonto, nella tazza, non esistono i due tempi, l’ andata e il ritorno, ad o, tranza. Quando te , o portano, i tempi, non solo si trova il modo di trovarli e farli combaciare, ma si evitano le miserie, e se ve ne sono state con i gesti, si fa in modo di fafseli perdonare e chiedere ancora un po di quel tramonto affinche ovunque si volga lo sguardo il mondo puo risplendere come una trasfigurazione. E , cara Marina, tu, non devi, o dovevi, non so, metterci nulla, tranne un po di disponibilita’a vedere. Ma a volte, il coraggio, non vogliamo averlo, di vederd, e vivacchiamo, magari grazie a qualche filosofo che ha imparato male le lezioni perche anche lui ha le sue macerie. Ci sono due occasioni in cui la sacra bellezza del Creato diventa di un’evidenza abbacinante, e queste si presentano contemporaneamente. Una, quando sentiamo la nostra mortale inadeguatezza rispetto al mondo, e l’ altra e’ quando sentiamo la mortale inadeguatezza del mondo rispetto a noi. Ma, come dice Agostino, “il Signore Dio asciughera’ le lacrime su ogni volto”. Ho spesso pensato a questa immagine del tramonto in una tazza, come portare se stessi, la propria “civilta’ rovinata” ovvero la propria storia, in maniera incondizionata, senza se e senza ma, a prescindere. Capita, a volte, di avere preoccupazioni, certo, ma davanti ad un tramonto, scusami, non ci possono essere ombre, nubi, vuoti. Soprattutto quando il tramonto capita di portarlo i una tazza chissa dove e contenuto chissa per quanto. E non si parla di tempi e non si parla di differenze….Perdona , ma ti auguro che qualcuno ti porti un tramonto in una tazza, di notte, viabgiando, dormendo dove capita, non mangiando……forse, o nessuno te lo ha mai portato, o eri distratta oppure ne hai bevuto al risparmio, oppure, come quel filosofo, e filosofa, ne hai bevuto parte e il resto……versato in una piazza. E sarebbe un peccato
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Ciao….quanta tristezza, quando non si raccoglie il tramonto in una tazza!
…sai cosa penso quando le cronache ci raccontano di tramonti come quella che ci hai offerto su Diego e Marilisa, e altre contenute qua e là?…penso che la persona a cui si offre o è stato offerto un tramonto….con sacrificio,fatica, dedizione, anche umiliazioni , bene,….penso che chi lo versa nella piazza, nel suo piccolo e squallido mondo,non abbia neppure riconosciuto quel tramonto, i colori, il mare e non lo ha apprezzato…perchè in quel ristretto mondo, non esiste un tramonto simile…..è come offrire perle preziose ai porci………….non meritano!…….Penso che non esistano temi diversi.Lo spazio vuoto, tra le mani e come un piccolo foro che giorno dopo giorno crea voragine.
Barbara
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Oggi (per dire, in questo periodo), mentre una nota e grande libreria chiude, oltre Oceano (speculazione? affitti cari?), a Torino, in piazza, “sotto portego” le cronache ci raccontano essere stati presenti tantissimi tramonti………in piazza, da raccoglierli e per mettere nella tazza al fine di porgerli con dentro qualcosa di sè a qualcuno di importante. Perché, la grande bellezza è intrattenersi con qualcuno e parlare di libri, regalare libri, ricevere libri, commentarli………Ora, posso dirlo. Il libro da cui ho tratto spunto per il commento qui sopra è “Gilead” di Marilynne Robinson, Einaudi. Un bellissimo libro che narra tre generazioni…l’America, le sacre scritture, gli affetti, i segreti, il perdono…..Al termine, l’ho trovato stupendo. Un libro che impone riflessione a tutto campo.
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