Torino. Porte Palatine. Passeggiata, mano nella mano.
Quando una lettera è scritta, che sia sul porfido, che sia sul foglio bianco o su di un lenzuolo, bhe, una lettera, merita sempre una risposta. E cosi’ e’ stato.
“Aderenze, spazi, differenze, unicità, originalità. Sembra proprio l’incontro tra un lettore e un libro. Invece, nella lettera, l’incontro è tra un lui e una lei. Fessure, piazze, corso, cielo e terra. L’incontro, l’attesa. La giusta distanza. Fessure. Una porta. L’amore che porta. E proprio le Porte Palatine, induvono a pensare alle fessure, che aprono e riaprono finestre sul mondo. Porte scorrevoli, porte a soffietto, porte lasciate aperte. Pertugi, che ripropongono e propongono. Sorprese. Passaggio di aria fresca che rinnova. Porte Palatine. Il passato, la retrospettiva. Porta aperte ad uno sguardo d’insieme nuovo. In prospettiva. Futuro. Il mare, la sabbia, la corsa che verrà e tornerà, su quella. Orme, da lasciare sulla sabbia fresca.Fermarsi, osservarle, riprendere fiato e guardare oltre. L’infinito. Tra cielo e mare. L’infinito leopardiano. Voglia di altro cielo più azzurro e altro mare più limpido. Desiderio. Di mani che si cercano e abbracci che avvolgono. Un pensiero ritorna. La ricerca di una scritta, del luogo, sulla sabbia, prima di una mareggiata. Si riscrive. Con nuovo inchiostro di questa splendida lettera 28. Gabbiani in lontananza, sul porto. Le case riaperte dopo l’inverno e odori di salsedine. Kleos, ascolto. E vedo. La primavera è tornata. Ben tornata.”
Lettera continua…..chissa’ perche, dopo aver letto questa lettera ho subito pensato a qualcosa di politico…..
Lettera continua, nella città, fabbrica di…parole.
Torino. Monte dei Cappuccini. Romanticismo notturno.
Il caffè, quel caffè, era il nostro rifugio. La piazza e la stazione nella quale aspettavamo un treno, il nostro treno. Due luoghi, due spazi, fulcro della vita culturale. Non era la nostra vita quotidiana, ma ci provavamo, a farla diventare. Nostra. In tutti e due i luoghi, i libri ci accompagnavano. Sempre. Ci aiutavano nella nostra libertà. Loro incontravano noi e noi incontravamo loro. E ogni incontro, un’esperienza unica. La loro con la nostra. La nostra e la loro. Con loro in nostra compagnia, superavamo confini e saltavamo angoli che la realtà ci costringeva o meglio, ci costringeva a vivere in luoghi angusti, e lavorare con un “abito” non nostro. Ma fortunatamente, come lo storico della domenica, ci scrollavamo di dosso molto, del passato, dall’ultimo incontro a quello nuovo. Torino era nostra. Piazza Castello, al pomeriggio. In lungo e in largo. Mano nella mano. Avevamo vinto lo scudetto. Il nostro. Una giornata di festa e tripudio. Festa, cori, trombe e bandiere. Uno scudetto appuntato sul petto, al termine di un campionato. Era l’andata. Il ritorno sarebbe stato più duro. Come tutti i ritorni. Una trasferta lunga, con il fattore campo che certo non aiutava. Ma intanto, quello, era il nostro scudetto. Laureatici campioni, in piazza, a festeggiare, come dopo un esame. In un campionato a due. Lo scudetto, quello nostro, era l’abbraccio e le mani intrecciate. Le trombe, due cuori esultanti. La bandiera era un enorme foglio bianco sul quale scrivere la storia. Il tamburo, il nostro cuore. Un cuore solo, fuso. La nostra storia. Piazza Castello, per l’occasione, e per tutte quelle a venire, diventava, o meglio, ridiventava la Medal Plaza. E noi, orgogliosi, la appuntavamo, sul nostro petto. Da li, ai Cappuccini, occhi gettati verso l’alto e da qui, a Superga. La città era nostra. Ai nostri piedi. Il ritorno, lento ma veloce. Uno sguardo all’orologio. Il tempo passa. Troppo velocemente. La riconquista della Piazza. La scelta del caffè, del bar, per l’aperitivo. Cosa che avremmo ricordato, il giorno dopo, in stazione, prima del congedo. Due mani, domani, formeranno un cuore. L’umor acqueo, fornirà l’inchiostro. Le dita, saranno i tasti, per scrivere qualcosa che non si puo’ dire in poco tempo, in pochi secondi. Quel tamburo continuava ad emettere lo stesso suono. A distanza. Di tempo. Il treno, velocemente veniva inghiottito dalla galleria cittadina. Cominciava il girone di ritorno. Tum, tum, tum…il cuore batteva il suo tempo e questo non ne rallentava mai quel battito.
Oggi, come allora, piazza Castello. Sul porfido, la lettera 28, batte gli ultimi tasti. Ultime lettere. Ancora una lettera. Per continuare. A sognare. Il foglio bianco, la nostra bandiera, ormai è divenuto testo scritto. Le dita, le mani, solo apparentemente si distaccano. Le dita, battono e scrivono una storia. Questa piazza sembra, a quest’ora, ha le sembianze di un bel visino. Occhiali, frangetta e occhi neri, sono quelli di Marina, che così “ricama” la sua storia. Io l’ascolto e la regalo ai lettori.
“Una coppia porta a spasso il suo segreto, nello spazio aperto di Piazza Castello, che induce a prendere fiato per fare un profondo respiro, per un lungo sospiro. Aria di libertà, il sole ravviva i colori e definisce i contorni, la temperatura, mite, rilassa i muscoli (compreso il cuore). Mi piace pensare che quelle mani non siano perfettamente aderenti, che non ci sia il vuoto fra di esse, ma che contengano il frutto dell’amore dei due, il frutto che si portano a spasso nascondendone il sapore al pubblico pur rivelandone la bellezza. E’ questa delicata esibizione di un sentimento, rispettosa del confine fra la dimensione pubblica e privata dello stesso, che suscita in me tenerezza. Strappandomi un sorriso e un pensiero, su quell’avanzare nella piazza come nella vita in due, distinti e diversi, ma l’uno accanto all’altro. Lui non colma le mancanze di lei, lei non colma le mancanze di lui, ma lo attraversano insieme, il vuoto che ognuno si porta dentro. Stando accanto. Anche quando l’amore è attesa e manca la routine per cui si conservano come reliquie oggetti, foto, libri che oggettivano la presenza, l’assenza, di lui o di lei. Basta poco per ritagliarsi un momento di poesia nella giornata. Alzo gli occhi al cielo, lo stesso cielo. Calpesto la stessa terra. E mentre le due mani intrecciate spariscono all’orizzonte in me rimane un retrogusto dolce, di qualcosa che fu, di tutto l’amore divorato, mai assaporato, mai restituito. Vita, torna da me, cavalcando la primavera.”